Nel rivolgermi a un pubblico di colleghi non posso fare a meno di rilevare come la concezione che del diritto abbiamo noi avvocati sia quasi esclusivamente pragmatica, vedendo nella norma lo strumento operativo con cui legittimare e realizzare l’interesse del cliente. La più appariscente conseguenza di simile visione è la denigrazione della filosofia o alternativamente della poesia, come dimostra la perfida frase destinata al difensore che arringando ha mancato di centrare la problematica del processo: “ha fatto filosofia” o “ha fatto poesia”.
Questa chiosa a margine d’esordio lungi
dal voler far torto al professor Vittorio Villa - che alla filosofia del
diritto dedica le sue fatiche universitarie e che stasera mi siede accanto come
correlatore, è una personale dichiarazione di solidarietà, perché, avendo
pubblicato due libri di poesia, anch’io, caro professore, sono diventato parte
offesa del denigrante pragmatismo forense.
Ma, dovendo trattare del rapporto tra giustizia e diritto, necessariamente dovrò
inoltrarmi nei territori della filosofia e della poesia, poiché all’una e
all’all’altra appartengono i due testi classici da cui si dipartono le direttrici che nella cultura occidentale focalizzano
il senso della giustizia che vive nell’individuo e l’imperativo normativo consacrato
dal diritto . Mi riferisco all’Antigone di Sofocle e al Critone di Platone.
In
dette opere vengono prospettate due concezioni antitetiche dell’agire umano in
relazione alla giustizia e al diritto, due
entità concettuali che nell’ideale dovrebbero coincidere ma nella realtà si
trovano a essere una variante della “quadratura del cerchio”, secondo cui il
perimetro di un poligono anche ad avere infiniti
lati mai coinciderà con la circonferenza di un cerchio che non ne ha nessuno. E
ciò perché mentre il senso della giustizia è legato al sentire profondo correlato al dinamismo della storia che forgia i contenuti
della coscienza e i valori collettivi,
il diritto è cristallizzato nell’immutabile positività della norma, che, per quanto possa essere
“interpretata” attraverso la giurisprudenza, non potrà mai perfettamente e
completamente contenere le ragioni della giustizia.
Platone teorizza una sottomissione del cittadino al
diritto, fatto legge (e quindi istituzione, e quindi stato) che possiamo
definire autoritaria. Nella sua polis le
giuste ragioni individuali debbono tacere davanti alla legge, anche se
ingiusta. Questa la tesi che viene sviluppata nelle opere politiche del
filosofo di Atene, alle quali appartiene il dialogo di Critone.
Critone, il giovane discepolo che va a
colloquiare con Socrate in carcere, in attesa della esecuzione della sentenza
di condanna a morte, rappresenta la voce
della giustizia che si ribella all’ingiusto verdetto; egli vuole sostituire il
codice della polis con quello della
propria coscienza attraverso un comportamento (procedura) apertamente illecito e illegittimo, qual è
quello di organizzare l’evasione del condannato. Si aspetta una risposta
collaborativa da parte di Socrate, uomo sapiente per eccellenza. Ma Socrate lo
stupisce con la sua reazione e lo ammaestra col suo ragionamento. Io non posso,
gli dice, per una questione personale, qual è la mia condizione di condannato a
morte, e per un fine egoistico, quale sarebbe la salvezza della mia vita, mettere
in discussione le leggi che reggono la polis.
Dal mio vantaggio individuale ne
deriverebbe una sciagura collettiva; perché dopo il mio precedente chiunque si
sentirebbe legittimato a far prevalere le proprie ragioni contro le leggi della
polis, che così, priva di autorità,
si disgregherebbe nell’anarchia.
Anche nell’Antigone, troviamo “idee” che diventano “personaggi”. Fuori le mura
di Tebe giace insepolto il corpo di Polinice, fratello di Antigone, considerato
traditore della patria per aver combattuto contro Tebe in una guerra fratricida
tra tebani. Creonte, re tirannico e autoritario, dispone che a quel cadavere
non venga data sepoltura affinché diventi pasto di rapaci. Ma Antigone,
disubbidendo alla legge civile, ma ubbidendo a quella divina della pietas, nottetempo esce fuori dalla
città e seppellisce il fratello. Scoperta, viene condannata a essere rinchiusa
a vita in una grotta, dove si impicca.
Come si può notare, tra Antigone-giustizia
e Creonte-istituzione s’interpone il cadavere di Polinice, che rappresenta il topos in cui s’incrociano due punti
di vista opposti. Contrariamente a Socrate che rifiuta di fuggire davanti
all’ingiusta condanna, Antigone sceglie di violare la legge, e col suo
personaggio la disubbidienza civile
diventa valore, fatto, questo, che ne
fa un archetipo e un’icona della sensibilità contemporanea.
Bisogna precisare infatti che l’enorme
successo dell’Antigone è moderno,
perché nel percorso della cultura occidentale, e fino a qualche tempo fa, è
prevalsa la visione platonica. Dalla cella di Socrate sembrano venir fuori: Rousseau
col suo contratto sociale, Kant con la sua legge morale, Hegel col suo stato
etico. Tutti sono stati a colloquio col maestro, e tutti ne sono usciti
convinti dalle sue argomentazioni.
L’evento traumatico che ha scardinato in modo
definitivo tale concezione va individuato nel nazismo, nella sua politica aggressiva,
nelle sue pianificazioni genocide. Al processo di Norimberga la tesi della
difesa di alcuni imputati è stata quella
di aver eseguito ordini superiori a cui non potevano sottrarsi, ma la sentenza
di condanna l’ha disattesa, legittimando per converso la disubbidienza nei
confronti della legge ingiusta. Non c’è
dubbio che se processati nella Repubblica
di Platone i gerarchi di Hitler sarebbe stati assolti. Su quei banchi occupati
dai giudici delle potenze vincitrici e dai protagonisti della sconfitta
Germania, idealmente si dibattevano a confronto i due testi di Sofocle e di
Platone.
Dopo Norimberga in Europa vi fu un fiorire
di rappresentazioni dell’Antigone,
soprattutto in quegli stati a regime totalitario. L’idea drammatizzata da
Sofocle, l’idea della deliberata e convinta violazione di una norma, nella
società moderna comincia a essere esplicitamente rivendicata alla sfera del
cittadino già nell’Ottocento col saggio di Henry David Thoreau (La disubbidienza civile, 1848). Thoreau
non condividendo lo schiavismo legalizzato dal governo degli Stati Uniti, né
l’aggressione imperialistica al Messico, si rifiuta di pagare le tasse. Per effetto di tale decisione viene imprigionato; non importa se per una
sola notte ( nell’immediatezza del fatto
una sua zia le tasse le pagò per lui),
ciò che conta è l’esempio fondante dell’atto dissidente, il simbolismo dello
strappo condensati a loro volta nel saggio-manifesto che grande diffusione avrà
nel Novecento ispirando uomini come
Gandhi e Luther King.
Ma
dietro la moderna concezione del rapporto giustizia-diritto,
individuo-istituzione c’è soprattutto il lavorio dell’ala destruens della cultura filosofica europea, che vede i suoi
principali protagonisti in Marx, Nietzsche e Freud. Nello loro analisi essi disintegrano
i concetti classici di morale, di diritto,
di stato col dimostrare che dietro le
rassicuranti apparenze dell’involucro nascondono gli interessi di una classe, l’arroganza
dei vincenti, la pulsione primordiale degli istinti . Non c’è dubbio che i contributi critici di questi signori del
disincanto abbiano concorso a
logorare i plurisecolari capisaldi della società, favorendo un lento
processo evolutivo teso a riconoscere spazio e dignità all’autodeterminazione dell’individuo
di fronte all’indiscutibile potere dello stato. Questa prospettazione decentralizzata
è una rivoluzione copernicana: da un lato, lo
stato attenua la sua assolutezza di entità super
partes, dall’altro, il cittadino diviene compartecipe nella costruzione del
concetto politico di “giustizia”. Il diritto all’obiezione di coscienza di fronte a determinati obblighi imposti da
norme di diritto pubblico è uno dei casi in cui si manifestano gli effetti visibili
di questo compromesso equilibratore. Lo stato arretra l’ambito di un suo potere
rispettando e tutelando una scelta
dettata da convinzioni individuali del cittadino.
Le superiori considerazioni consentono di
avvicinarsi con meno approssimazione e più rigore analitico al rapporto vivo che unisce le due
entità che costituiscono il tema della nostra conviviale serata. Tra le due quella
più problematica da racchiudere in una
definizione è senz’altro la “giustizia”.
Ad essa può applicarsi l’enunciato di
Lao-Tze riguardante il tao: “il tao di cui si può parlare non è il vero tao”, nel
senso che qualsiasi definizione non farebbe altro che impoverirne la natura.
Così, tanto definita nel particolare è la singola norma, quanto non congelato, non irrigidito in
una definizione positiva ha da essere il concetto di giustizia, per il semplice
motivo che la giustizia si radica e diffusamente vive nel cosmo culturale
dell’individuo. Se la giustizia fosse Dio, allora noi dovremmo usare i
parametri speculativi della teologia negativa, la quale tutto si concede tranne
che definire Dio. Calcando il sentiero tracciato da tali precedenti, diciamo che
il sentimento della giustizia emerge al livello della coscienza se sollecitato
dall’ingiustizia, o più precisamente da una norma ingiusta, che paradossalmente
finisce per avere il ruolo di stimolare in noi
il senso del giusto, il quale una volta attivato si riversa sulla norma
e l’attacca e la combatte per modificarla. La giustizia diventa cognizione
concreta allo stesso modo del colpo di
martello di cui parlava un maestro dell’antico Egitto al suo discepolo. Per
diventare colpo di martello, gli diceva, è necessario che incontri una
resistenza, altrimenti non è colpo di martello, è colpo a vuoto. Questo
del colpo di martello è un esempio pratico
che possiamo tradurre in discorso filosofico attraverso la fenomenologia di
Edmund Husserl. La coscienza per la fenomenologia non è entità che possa
concepirsi in astratto : perché è sempre correlata a ciò che percepisce.
Immancabilmente essa è coscienza-di-qualcosa. Ora, se la
giustizia è un sentire che sorge nella percezione di ciò che riteniamo
ingiusto, possiamo dedurre e affermare
che la giustizia è coscienza dell’ingiustizia.
Ritornando
al testo tragico di Sofocle: in esso l’idea di giustizia è rappresentata dalla pietas che muove Antigone ad agire; e la pietas non è legge scritta da legislatori o da tiranni, è
legge divina, la sua fonte è religiosa; in quanto tale non è interiormente sentita dai soli cittadini di Tebe, ma, non delimitabile
da culture o da frontiere, è valida in
ogni luogo e per chiunque. La modernità laica ha ripreso questa peculiarità
allorquando si è trovata nella necessità storica di individuare i
principi-guida a cui devono conformarsi le leggi e le costituzioni degli stati.
E’ avvenuto nella Rivoluzione Americana (1776) prima, e più marcatamente con la
Rivoluzione Francese dopo. La Dichiarazione
dei diritti dell’uomo e del cittadino (agosto 1789), di diretta derivazione
illuministica, aveva come destinatario ideale non solo il cittadino francese,
ma l’essere umano in quanto parte di una collettività organizzata, e quindi
l’intera umanità. Ancora più esplicita in tal senso è la Dichiarazione universale dei diritti umani, stilata in trenta articoli dopo la seconda guerra
mondiale (1948), nella quale gli estensori hanno voluto usare l’aggettivo
qualificativo “universale” che non compariva in quella precedente del 1789.
Essa, mirando a prevenire derive
criminali da parte dei governi , ha dato
fondamento giuridico, sul piano del
diritto internazionale, alla Dichiarazione
approvata dall’Assemblea Costituente della Rivoluzione Francese, che era,
sì, documento d’indiscutibile civiltà giuridica avanzata, ma non era
suscettibile di diventare vincolante sul piano internazionale.
Il ridimensionamento dello stato come depositario
di verità assolute e la conseguente valorizzazione della coscienza del cittadino, fino a
legittimarne la disubbidienza in presenza di determinate condizioni, ha reso
necessario ripensare l’individuo all’interno
di nuovi equilibri/squilibri. Sotto l’egida dell’assolutismo statuale egli doveva
curarsi
soltanto di rendere compatibile la propria condotta con ciò che
comandava lo stato, principio, questo, sintetizzato da Rousseau quando afferma
che libertà significa agire in armonia
con la legge che noi stessi ci siamo dati. Oggi invece il concetto di libertà
non sempre è sintonizzato con la legge adottata democraticamente, vi sono
ambiti privati in cui va istituzionalmente tutelato anche
il punto di vista della minoranza. Il singolo individuo è chiamato in prima
persona a confrontarsi con nuove realtà e nuove responsabilità. Il suo senso di
“giustizia” deve misurarsi continuamente con situazioni che lo rendono sempre
più protagonista e sempre meno passivo
destinatario della norma statuale, in una dialettica che può assumere anche
forme acute di conflittualità. La recente vicenda di Eluana Englaro, la ragazza
vissuta per diciassette anni in stato vegetativo e deceduta per la decisone dei
familiari di interromperne l’alimentazione artificiale, per le questioni che
ha sollevato sul piano etico-giuridico,
è caso esemplare di una partita tra coscienza e diritto giocata all’insegna
della giustizia.
Le
problematiche relative a ciò che è
giusto e ciò che non lo è coinvolgono l’uomo d’oggi molto più che in passato. Non si spiega altrimenti
il successo di un filosofo come Michael Sandel, che con uno stile accessibile a
chiunque riesce a raccontare il
concetto di giustizia calandolo in casi concreti in cui si riconoscono l’intellettuale
e la casalinga, il manovale e lo studente. La folla che assedia le sue lezioni
ad Harvard e le sue conferenze all’estero ha spinto qualcuno a paragonarlo ai
Rolling Stones. E cosa significa tutto ciò se non bisogno di sentirsi
legittimati nelle impreviste e imprevedibili situazioni create dal rapido
mutamento antropologico che stiamo attraversando?
L’uomo d’oggi per la prima volta nella
storia, e indipendentemente dal punto geografico abitato in concreto, si
ritrova a vivere in una dimensione
planetaria. La polis come entità
territoriale con un dentro/fuori, come
struttura ideale entro cui concepire e collocare libertà, proprietà, equità,
responsabilità ed altri valori che formano materia del diritto, non appare più paradigma valido. Due fenomeni
ne hanno determinato la crisi: la globalizzazione e il potere della tecnologia.
Neanche la metafora del “villaggio globale” di Marhall McLuhan regge più di fronte alla fusione e/o
coesistenza di culture diverse. Il “villaggio”
si è rivelato più complicato e per tanti aspetti più sconosciuto di
quanto si potesse prevedere. E l’individuo deve sapersi destreggiare, mantenere
la propria unità nell’eterogeneità, adeguarsi a modelli di esistenza e di
convivenza che non rientravano nell’orizzonte del suo prevedibile. Come ha rilevato Bauman, uno degli attributi
della realtà “globale” è la solitudine. Il solidarismo nato con le società
operaie nella seconda metà dell’Ottocento,
in una società “liquida” viene a mancare e il cittadino è sempre più solo anche rispetto a quelle
istituzioni (per es. partiti, sindacati)
che fino a ieri erano suoi punti di riferimento.
Sicuramente non è un caso che il maggior
teorico della nuova condizione dell’essere umano sia stato uno studioso dello
gnosticismo antico e un filosofo della
natura come Hans Jonas, autore de Il
principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, opera
pubblica nel 1979 e subito diventata il vangelo dei movimenti ecologisti. Il
rapporto uomo-natura in passato interessava soltanto il sacro, la religione, le
arti: Jonas crea i presupposti teoretici ed etici
perché diventi oggetto anche del
diritto. La sua riflessione muove dalla considerazione di fondo che la tecnologia ha trasformato la potenza
dell’agire umano e reso vulnerabile la natura. Prima dell’avvento dell’era
tecnologica, l’uomo era un elemento contenuto dentro l’ordine naturale;oggi la
natura è diventata oggetto della sua potenza e ne può essere danneggiata e
addirittura distrutta. Da qui la
necessità di una nuova etica della responsabilità dell’agire, l’esigenza
improrogabile di nuovi sistemi normativi idonei a salvaguardare la
sopravvivenza della biosfera, del genere umano, della vita sul pianeta. Nel
quadro della nuova responsabilità, i concetti di giustizia e diritto vanno
ripensati in una direttrice che coniughi dignità individuale e sopravvivenza
collettiva.
La visione jonasiana è metafisica, nel senso che l’individuo
viene riassorbito e giustificato nella totalità del cosmo, con la conseguenza
che il suo singolo gesto può essere contemporaneamente atto cosciente e responsabile
o variante impazzita e distruttiva del sistema che lo contiene. Questa visione
unitaria torna a ricucire l’ordito
metafisico lacerato dalla scissione tra
spirito e materia, tra anima e corpo operata dal pensiero cartesiano, sul quale aveva gettato le sue basi anche la
scienza sperimentale. Cartesio e Galilei hanno tolto l’anima al cosmo e hanno
messo la natura in mano all’individuo perché
ne facesse una macchina al servizio del della sua avidità. Il risultato
devastante è sotto gli occhi di tutti.
Con uno schematismo funzionale alla
chiarezza, possiamo dire che lo stato si dovrebbe assumere il compito di tradurre in norme di
diritto tutto quanto si vada appalesando necessario per salvaguardare l’ambiente e assicurare la sopravvivenza della
vita sul pianeta; il cittadino da parte sua, oltre a rispettare la norma,
dovrebbe coltivare in sé una sensibilità che includa un rapporto vivo con tutto
ciò che lo circonda, in modo da determinare quel cambiamento antropologico
inteso a ridargli il posto che gli compete nell’armonia del cosmo.
In
questo spazio interagente tra individuo e istituzione, oggi è calata un’ombra
inquietante: il predominio dell’economia sulla politica (e sull’economia a sua
volta quello della parte peggiore di sé, la finanza). L’impotenza della
politica e la potenza del denaro fanno si che lo stato, come nella tragedia di
Sofocle, ancora una volta si presenti con il volto di Creonte. Resta al
cittadino la scelta sul come far rivivere lo spirito di Antigone.
Diego Guadagnino
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