ANGELO LO VERME, Carcere minorile di Caltanissetta: spettacolo teatrale sullo scottante tema delle carceri


All’Istituto Penale per Minorenni di Caltanissetta nel pomeriggio del 29 Gennaio La Compagnia del Tempo Relativo” ha rappresentato la piece “Inneres auge e l’occhio della giustizia”, scritta da Lella Falzone, nella quale è anche regista, e Angelo Lo Verme, pure scenografo. Il dramma è liberamente tratto dal romanzo “Leone bianco leone nero” del nisseno Giuseppe Nicosia nel quale racconta i 51 giorni trascorsi da detenuto nell’altro carcere nisseno, il Malaspina.

  Per la giovane Compagnia canicattinese che aveva già realizzato altri lavori teatrali che affrontano tematiche sociali, andarne a realizzare uno molto scottante e attuale come quello sulle carceri e per di più all’interno di un carcere, è stata un’esperienza molto significativa e profonda sul piano professionale ma soprattutto su quello umano.
  La Direttrice dell’Istituto, la Dott.ssa Nuccia Miccichè, dopo averne letto il copione è stata ben felice di ospitare la Compagnia che per rappresentare il suo lavoro a costo zero, come molto esplicitamente ella ha posto come condizione, ha dovuto utilizzare  elementi scenografici di fortuna, e in assenza di un service audio e luci ha dovuto ricorrere a un paio di rudimentali faretti, gestibili separatamente da un’improvvisata consolle grazie a un doppio cablaggio di prolunghe e ciabatte elettriche, mentre i dialoghi erano facilmente udibili dato che l’ambiente era relativamente piccolo.
  Cosicché la Compagnia, risolti tutti i nodi tecnici e anche burocratici (per accedere nel carcere i 18 elementi della Compagnia sono stati preventivamente autorizzati dal Magistrato), alle 16.30 circa (giacché alle 19.00 i ragazzi cenano) può iniziare la rappresentazione sulle carceri all’interno di un carcere e davanti a un pubblico composto da 12 ragazzi detenuti, dalla Direttrice di un carcere, dagli operatori ed educatori del carcere e da alcuni agenti di polizia penitenziaria. Un gran bella responsabilità! Qualcosa come andare a parlare di corda in casa dell’impiccato! Per uscirne “indenni” era necessaria una buona dose di professionalità e serietà. Come pure bisogna riconoscere alla Dott.ssa Miccichè una buona dose di coraggio e apertura mentale, poiché ciò che si è messo in scena fondamentalmente è una severa critica al sistema carcerario e giudiziario italiano. La piece, riecheggiando abbastanza fedelmente il contenuto del romanzo di Nicosia, vuole anche essere però, e soprattutto, un modesto contributo allo sviluppo della consapevolezza sociale che permetta di guardare il detenuto come ad una persona che ha sbagliato ma che deve avere un’altra possibilità di reinserimento sociale, e non come ad un “appestato” marchiato a vita, da emarginare e a cui viene preclusa ogni futura possibilità di riscatto. Credo che questo alto contenuto sociale abbia convinto la Direttrice a lasciar realizzare la piece dentro le mura di un carcere. E molto modestamente vuole essere anche un invito rivolto alle istituzioni preposte affinché l’obiettivo finale della pena detentiva sia realmente il recupero del detenuto (non sovraffollamento e carenti attività rieducative), attivandosi per assicurargli il contesto più idoneo a tale scopo e un più facile reinserimento sociale. Cioè, il carcere non deve essere semplicemente il luogo e la condizione dove lo Stato semplicemente “mostra i muscoli” nei confronti dei cittadini che hanno più o meno gravemente violato la legge, con l’unico fine della pena esemplare. Questa non spezza affatto la tragica spirale delinquenziale in cui spesso si va a cacciare il detenuto, che scarcerato non è né rieducato, anzi esce più arrabbiato col mondo, né fuori va a trovare condizioni sociali migliori di quelle che aveva lasciato e che probabilmente lo avevano indotto a delinquere. Insomma, lo Stato non deve condurre il detenuto nella condizione di chi non ha più nulla da perdere ma in quella di chi ha tanto da guadagnare: un lavoro dignitoso e la speranza in un futuro.
  La trama della piece si dipana in modo semplice e lineare. Giuseppe, il protagonista, viene arrestato per coltivazione di marijuana e rinchiuso nel carcere Malaspina di Caltanissetta. Le scene si alternano per rappresentare episodi dentro la cella, nel cortile durante l’ora d’aria e nella sala colloqui con l’avvocato, lo psicologo e l’educatrice. I suoi familiari Giuseppe non li vuole incontrare per un suo personale pudore, per risparmiargli l’obbrobrio del carcere, ma in compenso lo vanno a trovare in sogno. La sorella, la zia e anche l’amico cocainomane rampante e ipocrita, a turno vengono a turbare il suo sonno per fargli delle aspre rampogne relative alla sua detenzione. La moglie invece, sempre in sogno, con molta più dolcezza gli rimprovera soltanto la sua decisione di non volerla incontrare. In cella come nel cortile si svolgono parecchi dialoghi fra detenuti: quelli più filosofici con u zì Micheli, il più saggio e colto dei detenuti; quelli con Gaspare (che in cella canta ossessivamente sempre la stessa canzone di Vasco: “Eh già! Eh già! E io sono ancora qua!”, con grande fastidio degli altri); con Miuza (palermitano che prima di ammazzare un poliziotto aveva un chioschetto di panelle e panini con la milza appunto); con Totò u siccu (tossicodipendente depresso che alla fine, dopo l’incontro con la moglie che gli annuncia di lasciarlo per emigrare al Nord, si suicida in cella); quelli spassosi con Palora che balbettando esordisce sempre con: “Giusè, Giusè!, ti pozzu diri na palora?” (ti posso dire una parola?), e cioè, per chiedere una sigaretta, e quando gli va male raccoglie cicche e se le fuma. Non è mancata nemmeno una scena dedicata a una scazzottata fra detenuti.
  Più elevati sono i dialoghi che Giuseppe fa in sogno con la rappresentazione umana della Giustizia. Uno stralcio a mo’ di esempio: «Giuseppe: E non mi guardi così, da quel ridicolo trono, e quasi dall’alto in basso! Si guardi piuttosto intorno una volta tanto e osservi gli uomini. Osservi le loro sofferenze, i loro drammi, le loro tragedie quotidiane, il loro dovere lottare ogni momento per non farsi sopraffare dallo sconforto, dal dolore, anche dalla  violenza, sì! Lei non pensa che a volte qualcuno delinqua per necessità, perché non ce la fa a tirare avanti in questa società totalmente sbilanciata nel tutelare i privilegi dei pochi e che ignora i bisogni vitali delle masse? - Giustizia: Forse in certi casi lei ha ragione, ma non dipende da me l’ingiustizia sociale, poiché non mi creo da me, ma sono gli uomini a crearmi a loro immagine e somiglianza; e nel legiferare l’uomo non sempre è ispirato e illuminato da alti valori spirituali e dunque morali. Il legislatore è pur sempre un uomo e in quanto tale fallibile e perfettibile. Se poi il potere è nelle mani di pochi, è probabile che io a volte sia costretta, mio malgrado, a fare gli interessi di quei pochi. - Giuseppe: Allora coloro che sono chiamati ad amministrarla dovrebbero giudicare secondo coscienza invece che applicare sempre e comunque la legge alla lettera, e con meno rigidità e nel senso della riabilitazione del condannato invece che in quello della punizione esemplare! - Giustizia: Ma caro signore, così pretende troppo da questi uomini! Anche loro, come i legislatori, non sempre sono illuminati, e anche quando posseggono un’elevata coscienza, non possono certo mettersi contro le istituzioni che rappresentano! - Giuseppe: Visto che lei sta ammettendo che qualche volta delle leggi ad hominem si fanno, allora dovrebbe far togliere dai tribunali quella scritta ipocrita “LA LEGGE E’ UGUALE PER TUTTI”. - Giustizia: Ma io mio caro non ho tale autorità. Io sono la giustizia e mi limito ad applicare le leggi che gli uomini fanno».
  La Compagnia del Tempo Relativo si prefigge di rappresentare sempre la realtà in toto, cogliendone tutti gli aspetti, da quelli più tragici a quelli più leggeri se non comici. Per questa caratteristica essa riesce a coinvolgere il pubblico più variegato. Infatti, attraverso la varietà di stile, di timbro e di contenuti, con questo dramma essa è riuscita a interessare sia i ragazzi detenuti che letteralmente si sbellicavano dalle risa laddove il linguaggio era più grossolano e volgare, e probabilmente anche il resto del pubblico con i dialoghi più profondi e filosofici sulla vita e sul concetto della giustizia.

  Alla fine della rappresentazione dopo avere ringraziato la Compagnia, la Dott.ssa Miccichè si è rivolta ai ragazzi per ricordargli che quella storia, pur trattandosi di una finzione scenica, esiste quasi identica nella realtà delle carceri per adulti, molto diversi è più crudi dell’Istituto Penale dove soggiornano, e che quindi gli deve servire da monito affinché non vi debbano mettere mai piede. All’invito ai ragazzi di porre qualche  domanda alla Compagnia, un paio, con un certo comprensibile e timido imbarazzo, hanno risposto chiedendo se potevano assistere a un’altra rappresentazione e che i ragazzi della Compagnia sono stati più bravi di loro che avevano pure realizzato un lavoro teatrale in carcere con la regista Stefania Zingarella. “No, non è vero; so invece che siete stati molto bravi!” è stata la risposta della regista Lella Falzone.  Dopo i saluti fra gli attori e tutti gli spettatori, le guardie hanno condotto i ragazzi per la cena, la sala si è svuotata e la Compagnia ha smontato la scenografia e si è avviata per Canicattì con un bagaglio emozionale sicuramente più ricco.

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