ROSA FARAGI, La strage di Portella delle Ginestre tra ombre e misteri


“C’è forse un sentire sempre nuovo nel reiterare il racconto
di funesti eventi del passato, come avveniva nell’antica
Grecia per le rappresentazioni teatrali della tragedia”. 

da “ La Sicilia delle stragi” di G. C. Marino
Portella delle Ginestre è un ampia vallata, brulla e selvaggia, dominata da due alture, il Pelavet e il Kumeta. Si trova nel territorio di Piana degli Albanesi. Questa amena località fu teatro della prima strage della Repubblica. Una vicenda piena di ombre e misteri, che ha influenzato, in qualche modo, le vicende politiche della Sicilia e del nostro Paese.

Prima di iniziare a parlare dei fatti drammatici che accaddero in questo luogo il 1° Maggio del 1947, dobbiamo fare un piccolo passo indietro e descrivere un matrimonio. Il 24 aprile dello stesso anno, si svolse a Montelepre un rito nuziale particolare che ebbe come protagonisti due giovani. Gli sposi si chiamavano Marianna Giuliano e Pasquale Sciortino. Non erano due giovani qualunque. Infatti, la sposa, era la sorella del famoso bandito Salvatore Giuliano detto anche Turiddu, mentre lo sposo, era uno dei componenti della banda. Nonostante il paese fosse presidiato da un forte contingente di Carabinieri e di soldati, alla ricerca di quello che veniva considerato il nemico numero uno del nascente Stato Italiano, tutto si svolse tranquillamente. Nel pomeriggio i due giovani si sposarono in Municipio e la sera, tra suoni di campane in festa e grida di gioia, si svolse il matrimonio religioso. Alla cerimonia partecipò Turiddu e la sua banda al completo, vestiti, per l’occasione, con gli abiti della festa. I testimoni raccontarono che Giuliano indossava un elegante completo grigio perla, una camicia di seta bianca, una cravatta bordeaux e scarpe nere di pelle lucida. Era un bel giovane e sua madre, Lombardo Rosalia, lo guardava con un misto d’orgoglio e di tristezza. Sapeva che prima o poi sarebbe stato ucciso. Alla fine del rito religioso tutti gli invitati parteciparono a una festa, a casa della famiglia della sposa, in onore  della giovane coppia, festa che durò, tra musica e balli, fino all’alba. Alla fine Turiddu, tornando ad indossare i panni di bandito, ritornò tra le montagne. Tutto questo, avvenne, senza che i Carabinieri, nonostante presidiassero il paese, e la presenza all’interno della banda Giuliano di un informatore, il bandito Salvatore Ferreri, meglio noto come Fra’ Diavolo, si accorgessero di nulla.
L’indomani le forze dell’ordine si “svegliarono, e non sapendo con chi prendersela, torchiarono il povero Don Di Bella, il parroco che aveva celebrato le nozze. Ma il sacerdote aveva fatto le cose secondo la legge. Infatti, il matrimonio si era svolto pubblicamente, dopo che le pubblicazioni matrimoniali erano rimaste esposte nella bacheca della sua chiesa e in quella di San Cipirello (paese d’origine dello sposo). Inoltre Don  Di Bella, dopo il matrimonio, si era appartato brevemente con Turiddu e  lo aveva  ammonito: «Ricordati, figliolo, che sopra a noi c’è un Dio che tutto vede e che un giorno ci giudicherà. Pensa a ciò che fai mentre sei ancora in tempo». Perché le forze dell’ordine non si accorsero di nulla? E’ mai possibile che gli informatori, all’interno della banda e nel paese, non li  avvertissero? Non ci vuole molto per capire che qualcuno, molto in alto, aveva consigliato loro di chiudere gli occhi e di tapparsi le orecchie.
Pochi giorni dopo, tra la notte del 27 e il 28 aprile, il novello sposo, Pasquale Sciortino, invece di stare a casa con la sposina, esce e raggiunge, senza grossi problemi, la fattoria dei fratelli Genovese, che nonostante fossero ricercati, se ne stavano tranquillamente a casa insieme a Giuliano, ai fratelli Pianello e a Fra’ Diavolo. Sciortino si apparta con il cognato e gli mostra una lettera. Turiddu, dopo averla attentamente letta, la distrugge. Poi riunisce i suoi uomini  attorno a sé e inizia a parlare: «E’ venuta l’ora della nostra liberazione. Bisogna fare un’ azione contro i comunisti, bisogna andare a sparare contro di loro il 1°maggio a Portella della Ginestra». Un cupo silenzio cadde sul gruppo. Nessuno se la sentiva di  chiedere spiegazioni. L’unico che parlò fu Giovanni Genovese, il “vecchio“ del gruppo con i suoi 35 anni che non nascose la sua contrarietà: «Turiddu, se devi prendertela con Li Causi, devi prendertela solo e unicamente con lui e con gli altri capi comunisti. Chiunque altro non dovrebbe entrarci in questa storia, figuriamoci dei poveri contadini o peggio, donne e bambini». I due uomini si guardarono con durezza, pronti a tutto, poi Genovese abbassò gli occhi e disse che non voleva essere coinvolto in questa vicenda. Giuliano riprese a parlare spiegando il suo piano. L’obiettivo era il sen. Girolamo  Li Causi, capo indiscusso dei comunisti siciliani. Aveva saputo che sarebbe stato presente il 1° maggio a Portella delle Ginestre. Giuliano voleva catturare Li Causi, processarlo davanti alla sua gente, per non avere mantenuto i patti di  appoggiare e fare eleggere  alle elezioni regionali Antonino Varvaro e poi fucilarlo.  Per tale motivo diede ordine ai suoi uomini di radunare una ventina di uomini per la sera del 30 aprile. Il reclutamento era stato molto approssimativo e tutt’altro che volontario. Gran parte erano “picciotti”, ancora minorenni, reclutati con la promessa che “ a lavoro compiuto” avrebbero ricevuto 5.000 lire. Molti di loro nemmeno sapevano di che tipo di “lavoro” si trattasse. Gioacchino Musso, un ragazzo di  appena 17 anni, fu avvicinato da alcuni banditi e invitato a partecipare alla riunione del 30 sera. Di fronte al suo iniziale rifiuto, i reclutatori, con tono minaccioso ripeterono: “Ha detto Turiddu che devi andare da lui, hai capito?”. Il ragazzo abbassò il capo e accettò, non si poteva dire no a Turiddu, pena la morte. La stessa scena si ripete con un altro ragazzo, Giovanni Russo, “reclutato” mentre passeggiava, per i fatti suoi, per le strade di Montelepre. Anche lui dovette accettare.   E così la sera del 30 aprile, in contrada Cippi, a pochi chilometri da Montelepre, si ritrovarono una ventina di uomini.  Giuliano, salì sopra un masso e iniziò a parlare: “Domani è il primo maggio e i comunisti si radunano a Portella della Ginestra per la loro festa. Questi comunisti stanno prendendo troppo piede. Doppiamo fare un’ azione.” Di fronte alle perplessità di molti presenti, Giuliano volle chiarire il concetto: “vuol dire che gli andiamo a sparare”. Il solito Giovanni Genovese, fu l’unico che espresse verbalmente il suo dissenso: “ sarebbe una carognata, ci saranno donne e bambini, lascia perdere Turiddu”. Ma Giuliano lo interruppe gridando: “Domani spariamo ai comunisti” e Genovese gli rispose sotto voce: “ io non ci vengo”. Oltre a Genovese ci fu un'altra defezione, quella di Tommaso Di Maggio, perchè “ troppo vecchio”. Gli altri partecipanti, dopo essere stati armati, furono divisi in piccoli gruppi e iniziarono la loro marcia per raggiungere  Portella della Ginestra. Percorrendo trazzere e angusti viottoli di montagna, nel buio della notte, rischiarata da una pallida luna, finalmente raggiunsero la meta alle prime luci dell’alba. Mentre si riposavano, stremati dalla lunga camminata, scorsero quattro cacciatori alla ricerca di qualche coniglio da arrostire durante la “ mangiata” che avrebbe seguito la manifestazione politica. i Quattro furono circondati e disarmati. ”Siete comunisti?” gli chiese Giuliano e di fronte alla loro risposta negativa ( non del tutto veritiera), Giuliano li fece legare e portare dietro una roccia, invitandoli a non parlare e a non fare rumore se no…… . Giuliano divise i suoi uomini in due gruppi. Lui, insieme a Frà Diavolo (Salvatore Ferreri), Giuseppe Passatempo, Nunzio Badalamenti, Giuseppe Cucinella, Pietro Licari, Giuseppe Di Lorenzo, Salvatore Pecoraro, Giuseppe e Fedele Pianello, Castrenze Madonia e Giuseppe Genovese, rimasero sul monte Palavet. L’altro gruppo, che comprendeva Antonino Terranova, Francesco Pisciotta, Francesco Palma Abate, Rosario Candela, Frank Mannino, Francesco Motisi, Pasquale Sciortino e Angelo Taormina, doveva raggiungere monte Kumeta. In tal modo la piana sarebbe stata completamente sotto il tiro dei banditi. Tale gruppo non raggiunse mai la loro postazione e perciò non partecipò alla strage, tesi ufficiale,, perchè la zona era piena di Carabinieri, ma qualcuno sospetta che questa fu una scusa, per non ubbidire agli ordini di Giuliano; anche loro, probabilmente, non erano d’accordo con la strage. Intanto la piana cominciava a riempirsi di manifestanti e di bandiere rosse. A piedi, a dorso di mulo, sui colorati carretti addobbati per la festa, o in  scassate biciclette, uomini, donne, bambini, vecchi e giovani, con i vestiti della festa, scialavano contenti verso il palco, dove tra non molto sarebbe salito l’oratore ufficiale: Mommo Li Causi. Ma Li Causi, fu trattenuto a Palermo, da un altro impegno. Al suo posto fu designato un giovane studente universitario, Francesco Renda, che tutto contento partì con la sua motocicletta. Ma a Portella delle Ginestre, non arrivò mai. Il destino fu più forte del suo entusiasmo giovanile. La moto si guastò lasciando il futuro storico appiedato ad imprecare ingiustamente contro la sua mala sorte. Di fronte alla gente che cominciava ad impazientirsi, Giacomo Schirò, segretario della sezione del Partito Socialista di San Giuseppe Jato, salì sul palco ( che nella realtà era un grosso masso ) per intrattenere la gente, in attesa dell’oratore ufficiale. Tra uno sventolio di bandiere rosse iniziò il suo intervento: “Amici, compagni, siamo qui riuniti…..” dopo fu l’inferno.
“La vecchia credeva che fossero mortaretti e cominciò a battere le mani festosa. Rideva. Per una frazione di secondo continuò a ridere, allegra, dentro di sé, ma il suo sorriso si era già rattrappito in un ghigno di terrore. Un mulo cadde con il ventre all'aria. A una bambina, all’improvviso, la piccola mascella si arrossò di sangue. La polvere si levava a spruzzi come se il vento avesse preso a danzare. C'era gente che cadeva,  in silenzio, e non si alzava più. Altri scappavano, urlando come impazziti. E scappavano, in preda al terrore, i cavalli, travolgendo uomini, donne e bambini. Poi si udì qualcosa che fischiava contro i massi. Qualcosa che strideva e fischiava. E ancora quel rumore di mortaretti. Un bambino cadde colpito alla spalla. Una donna, con il petto squarciato, era finita esanime sulla carcassa della sua cavalla sventrata. Il corpo di un uomo, dalla testa maciullata cadde al suolo con il rumore di un sacco pieno di stracci. E poi quell'odore di polvere da sparo.
La carneficina durò in tutto un paio di minuti. Alla fine la mitragliatrice tacque e un silenzio carico di paura piombò sulla piccola vallata. In lontananza il fiume Jato riprese a far udire il suo suono liquido e leggero. E le due alture gialle di ginestre, la Pizzuta e la Cumeta, apparvero tra la polvere come angeli custodi silenti e smarriti.
Era il l° maggio 1947 e a Portella della Ginestra si era appena compiuta la prima strage dell'Italia repubblicana: 11 morti, due bambini e nove adulti e 27  feriti.
Tutti poveri contadini siciliani. Che a sparare dalle alture, sulla folla radunata a celebrare la festa del lavoro, fossero stati gli uomini del bandito Salvatore Giuliano, gli italiani lo scopriranno solo quattro mesi dopo, nell’autunno del 1947. Ma mai riusciranno a sapere chi armò la mano di quei briganti, comodi residui della storia, incarnazione di un fenomeno del passato, che ancora sopravviveva nella Sicilia dei compromessi e degli intrighi. 

LE VITTIME
Questi sono le 11 vittime, così come riportate dalla pietra incisa posta sul luogo del massacro:
1.      Margherita Clesceri
2.      Giorgio Cusenza
3.      Giovanni Megna (18 anni)
4.      Francesco Vicari
5.      Vito Allotta (19 anni)
6.      Serafino Lascari (15 anni)
7.      Filippo Di Salvo (48 anni)
8.      Giuseppe Di Maggio (13 anni) Secondo alcune fonti il bambino aveva solo 7 anni
9.      Castrenze Intravaia (18 anni)
10.  Giovanni Grifò (12 anni)
11.  Vincenza La Fata (8 anni) 
Nella realtà i morti furono 12, infatti, subito dopo , Giuliano, dopo aver liberato i quattro cacciatori, invitò i suoi uomini a disperdersi. Mentre si allontanavano incontrarono un campiere, Emanuele Busellino. Dopo averlo fermato, lo perquisirono. In una tasca trovarono un biglietto che lo indicava come un possibile confidente dei carabinieri. Giuliano non ci pensò due volte e uccise il malcapitato con una raffica di mitra. Il corpo fu trovato, quattro mesi dopo, in fondo ad un crepaccio, sembra grazie ad una soffiata del solito Fra’ Diavolo. Ci furono altri testimoni che rilasciarono una testimonianza mai del tutto valutata adeguatamente dagli inquirenti e dagli storici e che lascia molte perplessità. Alcuni ragazzi e alcune ragazze  videro una scena che così fu verbalizzata:
«Quando abbiamo sentito gli spari e subito dopo le grida d’aiuto siamo usciti dal nascondiglio per vedere ciò che stava accadendo. In quel momento ci siamo accorti che dal monte Pizzuto stavano scendendo in fila indiana una decina di uomini armati. Uno di essi, che indossava un impermeabile bianco, bestemmiava come un turco e non faceva altro che ripetere:” disgraziati, disgraziati, chi facistivu».

I MANDANTI DELLA STRAGE

«Coloro che ci avevano fatto le promesse si chiamavano così: L’onorevole deputato democristiano on. Bernardo Mattarella,l’onorevole deputato regionale Giacomo Cusumano Geloso, il principe Giovanni Alliata di Montereale, l’onorevole monarchico Tommaso Leone Marchesano e anche il signor Mario Scelba. Furono Marchesano, il principe Alliata, l’onorevole Mattarella a ordinare la strage di Portella della Ginestra. Dopo le elezioni del 18 aprile 1948, Giuliano mi ha mandato a chiamare e ci siamo incontrati con Mattarella e Cusumano; l’incontro tra noi e i due mandanti è avvenuto in contrada Parrino, dove Giuliano ha chiesto che le promesse fatte prima del 18 aprile fossero mantenute. I due tornarono allora da Roma e ci hanno fatto sapere che Scelba non era d’accordo con loro, che egli non voleva avere contatti con i banditi

 Tale dichiarazione fu fatta dal luogotenente  di Giuliano, Gaspare Pisciotta, durante il Processo di Viterbo, nel 1951. Pisciotta, che erroneamente viene considerato cugino, da parte di madre, di Giuliano (nella realtà  le madri, anche se si chiamavano Lombardo, non erano nemmeno parenti), il 9 febbraio 1954 fu ucciso, avvelenato con la stricnina, mentre si trovava rinchiuso all’Ucciardone di Palermo. Anche qui la storia ha erroneamente parlato di un caffè avvelenato, nella realtà il veleno  era stato aggiunto nel flacone di un farmaco (Vidalin) che Pisciotta assumeva giornalmente, a causa della tubercolosi. Aveva chiesto, giorni prima, di parlare con il giudice perche  aveva” nuove gravissime rivelazioni” da fare a “quattr’occhi”, ma il veleno arrivò prima delle sue rivelazioni
 Il settimanale “Famiglia Cristiana” ha pubblicato, in un articolo del 18 dicembre 2011, un servizio esclusivo sulla Strage di Portella della Ginestra, dove sono descritte le Conclusioni del Pm  Pietro Scaglione, ucciso dalla mafia il 5 maggio del 1971. In un documento del 1953, il procuratore Scaglione parla apertamente di finalità anticomuniste della strage e di rapporti tra le forze dell’ordine e il banditismo.
In una giornata autunnale addolcita da un timido sole, dopo l’improvvisa telefonata di un cronista giudiziario di lungo corso (avido di notizie sul bandito Salvatore Giuliano, sul suo luogotenente Gaspare Pisciotta e sulla strage di Portella della Ginestra), inizia una mia speciale  “caccia al tesoro”  nell’archivio di mio nonno, il procuratore capo della Repubblica di Palermo, Pietro Scaglione, assassinato il 5 maggio del 1971, insieme all’agente Antonino Lo Russo.
Tra montagne di carte, sentenze, articoli, libri e requisitorie, come per incanto, compaiono due preziosi documenti. Il primo è una copia in carta carbone delle dirompenti “Conclusioni” dell’allora Sostituto procuratore generale Pietro Scaglione negli “Atti relativi ai mandanti della strage di Portella della Ginestra”, dove si descrivono le finalità anticomuniste dell’eccidio e dove si denunciano i rapporti tra il banditismo e le forze dell’ordine. Il secondo documento, invece, è il reportage del giornalista Riccardo Longone, pubblicato in prima pagina dal quotidiano “L’Unità” il  14 febbraio del 1954 e intitolato “Pisciotta annunciò al magistrato nuove gravissime rivelazioni”.
La ricerca rappresenta l’occasione per un’ appassionante viaggio nella memoria della “madre di tutte le stragi “ Portella della Ginestra”. Tra la folla di uomini, donne e bambini accorsi in quel tragico primo maggio di 52 anni fa nella contrada palermitana di Portella per celebrare la Festa del Lavoro, nessuno immaginava che il paradiso si sarebbe trasformato in un inferno. Anzi, in quel clima gioioso, i primi spari furono confusi con i mortaretti e i fuochi d’artificio. Ma ben presto, tra lo sgomento generale, si scoprirono i cadaveri di persone e animali, colpiti dalla furia dei mitragliatori. I membri della banda Giuliano (aiutati, secondo alcuni storici, da infiltrati fascisti e americani) spararono sulla folla, uccidendo 11 persone e ferendone 27.
Una scena drammatica, ben descritta da mio nonno nella sua inchiesta, come in un film: “La festa aveva così il suo epilogo più tragico ed imprevisto. Impaurita, terrorizzata, la gente fuggiva disordinatamente in cerca di un qualsiasi riparo contro il persistente e violento imperversare dei colpi d’arma da fuoco. Urla di terrore, invocazioni di aiuto, accorate grida di richiamo, lamenti, pianti, implorazioni, imprecazioni risuonarono nell’ampia vallata anche dopo il cessare della violenta sparatoria”.
Ma quali furono le finalità della strage di Portella della Ginestra, definita da mio nonno “delitto infame, ripugnante e abominevole” Nelle Conclusioni del PM Pietro Scaglione (datate 31 agosto 1953), i moventi principali accreditati furono i seguenti:  la lotta “ad oltranza” contro il comunismo che Giuliano “mostrò sempre di odiare e di osteggiare”; la volontà da parte dei banditi di accreditarsi come “i debellatori del comunismo”, per poi ottenere l’amnistia; la volontà di “usurpazione dei poteri di polizia devoluti allo Stato”; la “punizione” contro i contadini che cacciavano i banditi dalle campagne; la “difesa del latifondo e dei latifondisti”.
Mio nonno respinse il tentativo di coinvolgere il Pci - operato dagli ambienti conservatori - e archiviò per assoluta infondatezza la denuncia del giornalista Vincenzo Caputo contro il senatore comunista Girolamo Li Causi. “Giuliano non strinse mai intese con il Partito comunista, verso cui mostrò sempre la più irriducibile avversione e l’odio più tenace”, sentenziò il magistrato Scaglione.
D’altronde, la storia stessa del banditismo smentiva la tesi di Caputo (condivisa dal ministro degli Interni, Mario Scelba). Nei sette anni del lungo dopoguerra siciliano, infatti, i principali bersagli della banda Giuliano furono le sedi dei sindacati e dei partiti di sinistra: una strategia anticomunista e anticontadina culminata nell’orrenda strage di Portella della Ginestra.
Mio nonno scagionò da qualunque sospetto anche la sinistra separatista siciliana  dell’avv. Nino Varvaro, che aderì al Blocco del Popolo, il fronte unitario delle forze socialiste e comuniste. La ragione era semplice: Giuliano “si orientò politicamente genericamente verso i partiti anticomunisti, come risultò dalle deposizioni dei suoi familiari”, quindi non avrebbe mai potuto stringere accordi con il Blocco del Popolo.
Nelle sue Conclusioni, invece, il PM Scaglione parlò di “crisma della verità” per le sconvolgenti rivelazioni di Gaspare Pisciotta, luogotenente di Salvatore Giuliano, in relazione ai rapporti tra banditismo, mafia e forze dell’ordine. Un ritratto inquietante degli anni in cui il Ministero degli Interni concesse un singolare “attestato di benemerenza” per Pisciotta. In particolare, un Ispettore generale di Pubblica Sicurezza intrattenne “amichevoli incontri con il capobanda Giuliano, allietati da soffici panettoni e liquori”; un ufficiale dei carabinieri concesse a Pisciotta “generosa ospitalità e amichevoli attenzioni”; un generale dell’esercito offrì allo stesso Pisciotta “un regolare passaporto perché potesse liberamente espatriare e sottrarsi così alle sanzioni della legge per tutti i gravissimi delitti commessi”.
Nell’inverno del 1954, rinchiuso in una cella dell’Ucciardone (il carcere borbonico di Palermo), Gaspare Pisciotta chiese di incontrare un magistrato per confessargli “nuove sconvolgenti rivelazioni”.  Accompagnato da un cancelliere, il sostituto Pietro Scaglione si recò nella cella di Pisciotta, per interrogarlo, ma il luogotenente di Giuliano chiese di parlare “a quattr’occhi” con il magistrato, senza la presenza di altre persone. Mio nonno disse che la presenza del cancelliere era indispensabile per verbalizzare le sue rivelazioni, e Pisciotta, chiese una pausa di riflessione.
Non vi fu più tempo. Il 9 febbraio del 1954, infatti, Gaspare Pisciotta morì avvelenato con la stricnina, contenuta in un cucchiaio di Vidalin e non nel leggendario caffè corretto (come si era creduto per tanti anni). Ma chi tappò per sempre la bocca ad uno scomodo pentito, depositario di inquietanti segreti sulla strage di Portella della Ginestra e sugli inconfessabili accordi tra il potere e la malavita?
Indagando sulla morte di Pisciotta, il sostituto procuratore Pietro Scaglione parlò apertamente di responsabilità dell’alta mafia, che aveva già ucciso numerosi sindacalisti nemici del latifondo. Una lunga scia di sangue culminata proprio nell’assassinio di mio nonno nel 1971, un’altra data storica che segnò l’inizio dell’attacco contro la magistratura.

Tratto da: Famiglia Cristiana Articolo di Pietro Scaglione, nipote dell’ex P.M. di Palermo


CONCLUSIONI

Prima di morire per mano di Pisciotta, Salvatore Giuliano spiegò con queste parole il perché della Strage di Portella della Ginestra:
Non si poteva restare indifferenti davanti all’avanzata diabolica della canea rossa, la quale, allettando con insostenibili e stolte promesse i lavoratori, ha sfruttato e si è servita del loro suffragio per fare della Sicilia un piccolo congegno da servire al funzionamento della macchina sovietica”.
Giuliano venne ucciso a Castelvetrano il 5 luglio 1950. All’inizio si disse che la morte era avvenuta durante un conflitto a fuoco con i carabinieri. Successivamente  la versione cambiò e si arrivò alla conclusione che ad ammazzarlo era stato il suo luogotenente, Gaspare Pisciotta, avvelenato a sua volta in galera nel 1954 dopo aver manifestato la volontà di rivelare i nomi dei mandanti. Attualmente vi sono forti dubbi che Pisciotta  sia stato l'autore materiale dell'omicidio e si ipotizza che Giuliano fosse stato ucciso altrove, ciò è stato fatto osservare nella trasmissione Blu notte di Carlo Lucarelli, ed emerge anche, dal lavoro di Alberto Di Pisa e Salvatore Parlagreco. In parole povere, a Castevetrano, si inscenò una macabra finzione per distogliere l’attenzione sui reali fatti accaduti. Si è forse capito del perché della strage, ma non si è mai capito invece chi è stato il vero mandante. Mafia, politica, iniziativa personale, fascisti, servizi segreti USA preoccupati dell’espansione delle sinistre in Italia, latifondisti siciliani. Certamente i documenti del P.M. Pietro Scaglione, aprono uno spiraglio importante sulla strada della verità.

LE DOMANDE ANCORA SENZA RISPOSTE

Questa è una di quelle storie che, quando pensi di aver capito tutto, ti accorgi che rimangono tanti lati oscuri, tante incertezze e tante domande, le cui risposte potrebbero rimettere in discussione le nostre certezze:
-          Perchè i carabinieri di Montelepre non si accorsero che la sorella di Giuliano si stava sposando sotto i loro occhi, alla presenza di tutta la banda ?
-          Chi diede loro l’ordine di starsene tranquilli in caserma e perché?
-          Chi mandò la famosa lettera recapitata a Giuliano dal cognato?
-          Cosa conteneva di tanto importante da costringere Pasquale Sciortino ad interrompere la sua “ luna di miele” per recapitarla, subito, al cognato?
-          Come mai il confidente della polizia, Fra’ Diavolo ( Salvatore Ferreri) non informò chi di dovere?
-          Come mai furono risparmiati, da Giuliano, i quattro cacciatori, che erano dei testimoni  oculari scomodi?
-          Perché ci vollero ben quattro mesi per indicare nella “banda Giuliano” i responsabili della strage?
-          Quale fu il ruolo della mafia e dei servizi segreti italiani e americani?
-          Che ruolo ebbero i vari politici del centro destra ( Giacomo Cusumano Geloso, il principe Giovanni Alliata di Montereale Bernardo Mattarella e Tommaso Leone Marchesano?
-          Perché il sen. Girolamo Li Causi rinunciò ad andare a presiedere alla manifestazione di Portella?
-          Che ruolo ebbe nella vicenda il ministro degli interni Mario Scelba?
-          Che interpretazione dare alla testimonianza di quei giovani che sentirono gridare Giuliano: “disgraziati, disgraziati, chi facistivu?”
-          Che ruolo ebbero i servizi segreti e la mafia italo-americana?
Ci sarebbero ancora tanti dubbi e tante domande che ci affollano nella mente. Chi sa se un giorno sapremo la Verità.
Da “La Sicilia delle stragi” di G.C. Marino La strage di Portella della Ginestra e i misteri della politica: “C’è forse un sentire sempre nuovo nel reiterare il racconto di funesti eventi del passato, come avveniva nell’antica Grecia per le rappresentazioni teatrali della tragedia…..”
Per una più completa informazione e per una più esauriente analisi si rinvia alla lettura delle opere di insigni esperti storiografi. Questo breve saggio, vuol semplicemente rinverdire la memoria, di un episodio, che ancora oggi, reclama verità e giustizia.

Bibliografia
  • Francesco Petrotta, Portella della Ginestra. La ricerca della verità. Ediesse, 2007
  • Francesco Petrotta, La strage e i depistaggi. Il castello d'ombre su Portella della Ginestra, 2009, Ediesse.
  • Pietro Manali (a cura di), Portella della Ginestra 50 anni dopo (1947-1997), S. Sciascia editore, Caltanissetta-Roma, 1999.
  • Francesco Renda, Portella della Ginestra e la guerra fredda. I cento anni della Cgil siciliana. Conversazioni con Antonio Riolo, 2008, Ediesse.
  • Umberto Santino, La democrazia bloccata. La strage di Portella della Ginestra e l'emarginazione delle sinistre, 1997, Rubettino.
  • Carlo Lucarelli, Il bandito Giuliano in Nuovi misteri d'Italia. I casi di Blu Notte, pp. 3-24, Torino, Einaudi, 2004..
  • Paolo Sidoni- Paolo Zanetton Cuori rossi contro cuori neri. Newton Compton Editori
  • Giuseppe Casarrubea, Fra' Diavolo e il governo nero. «Doppio Stato» e stragi nella Sicilia del dopoguerra, Franco Angeli editore.
  • Giuseppe Casarrubea, Portella della Ginestra. Microstoria di una strage di Stato, Franco Angeli editore.
  • Giuseppe Casarrubea e Mario J. Cereghino, Salvatore Giuliano. Morte di un capobanda e dei suoi luogotenenti.
  • Carlo Ruta, Il binomio Giuliano-Scelba. Un mistero della Repubblica?. Rubbettino editore, Soveria Mannelli, 1995.
  • Carlo Ruta, Giuliano e lo Stato. Documenti sul primo intrigo della Repubblica. Edi.bi.si., Messina, 2004.
  • Carlo Ruta, Il processo. Il tarlo della Repubblica. Eranuova, Perugia, 1994.
  • Girolamo  Li Causi, Portella della ginestra. La ricerca della verità 2007, Ediesse.
  • Angelo La Bella, Mecarolo Rosa, Portella della Ginestra. La strage che ha cambiato la storia d'Italia, 2003, Teti.
  • Giuseppe Casarrubea, Storia segreta della Sicilia. Dallo sbarco alleato a Portella della Ginestra,  Bompiani
  • Giuseppe Carlo Marino La Sicilia delle stragi
  • Salvatore Vaiana, La strage di Canicattì
  • Salvatore Vaiana, PerlaSicilia (blog)
  • Dino Paternostro, La lunga strage dei contadini 1944-1965
Rosa Faragi

https://www.facebook.com/notes/rosa-faragi/la-strage-di-portella-delle-ginestre-tra-ombre-e-misteri/10151273668545772

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