“C’è forse un sentire sempre nuovo nel reiterare il racconto di funesti eventi del passato, come avveniva nell’antica Grecia per le rappresentazioni teatrali della tragedia”. da “ La Sicilia delle stragi” di G. C. Marino |
Portella delle Ginestre
è un ampia vallata, brulla e selvaggia, dominata da due alture, il Pelavet e il
Kumeta. Si trova nel territorio di Piana degli Albanesi. Questa amena località
fu teatro della prima strage della Repubblica. Una vicenda piena di ombre e
misteri, che ha influenzato, in qualche modo, le vicende politiche della
Sicilia e del nostro Paese.
Prima di iniziare a
parlare dei fatti drammatici che accaddero in questo luogo il 1° Maggio del
1947, dobbiamo fare un piccolo passo indietro e descrivere un matrimonio. Il 24
aprile dello stesso anno, si svolse a Montelepre un rito nuziale particolare
che ebbe come protagonisti due giovani. Gli sposi si chiamavano Marianna
Giuliano e Pasquale Sciortino. Non erano due giovani qualunque. Infatti, la
sposa, era la sorella del famoso bandito Salvatore Giuliano detto anche
Turiddu, mentre lo sposo, era uno dei componenti della banda. Nonostante il
paese fosse presidiato da un forte contingente di Carabinieri e di soldati,
alla ricerca di quello che veniva considerato il nemico numero uno del nascente
Stato Italiano, tutto si svolse tranquillamente. Nel pomeriggio i due giovani
si sposarono in Municipio e la sera, tra suoni di campane in festa e grida di
gioia, si svolse il matrimonio religioso. Alla cerimonia partecipò Turiddu e la
sua banda al completo, vestiti, per l’occasione, con gli abiti della festa. I
testimoni raccontarono che Giuliano indossava un elegante completo grigio
perla, una camicia di seta bianca, una cravatta bordeaux e scarpe nere di pelle
lucida. Era un bel giovane e sua madre, Lombardo Rosalia,
lo guardava con un misto d’orgoglio e di tristezza. Sapeva che prima o poi
sarebbe stato ucciso. Alla fine del rito religioso tutti gli invitati
parteciparono a una festa, a casa della famiglia della sposa, in onore della giovane coppia, festa che durò, tra
musica e balli, fino all’alba. Alla fine Turiddu, tornando ad indossare i panni
di bandito, ritornò tra le montagne. Tutto questo, avvenne, senza che i
Carabinieri, nonostante presidiassero il paese, e la presenza all’interno della
banda Giuliano di un informatore, il bandito Salvatore Ferreri, meglio noto
come Fra’ Diavolo, si accorgessero di nulla.
L’indomani le forze
dell’ordine si “svegliarono, e non sapendo con chi prendersela, torchiarono il
povero Don Di Bella, il parroco che aveva celebrato le nozze. Ma il sacerdote
aveva fatto le cose secondo la legge. Infatti, il matrimonio si era svolto
pubblicamente, dopo che le pubblicazioni matrimoniali erano rimaste esposte
nella bacheca della sua chiesa e in quella di San Cipirello (paese d’origine
dello sposo). Inoltre Don Di Bella, dopo
il matrimonio, si era appartato brevemente con Turiddu e lo aveva
ammonito: «Ricordati, figliolo,
che sopra a noi c’è un Dio che tutto vede e che un giorno ci giudicherà. Pensa
a ciò che fai mentre sei ancora in tempo». Perché le forze dell’ordine non
si accorsero di nulla? E’ mai possibile che gli informatori, all’interno della
banda e nel paese, non li avvertissero?
Non ci vuole molto per capire che qualcuno, molto in alto, aveva consigliato
loro di chiudere gli occhi e di tapparsi le orecchie.
Pochi giorni dopo, tra
la notte del 27 e il 28 aprile, il novello sposo, Pasquale Sciortino, invece di
stare a casa con la sposina, esce e raggiunge, senza grossi problemi, la
fattoria dei fratelli Genovese, che nonostante fossero ricercati, se ne stavano
tranquillamente a casa insieme a Giuliano, ai fratelli Pianello e a Fra’
Diavolo. Sciortino si apparta con il cognato e gli mostra una lettera. Turiddu,
dopo averla attentamente letta, la distrugge. Poi riunisce i suoi uomini attorno a sé e inizia a parlare: «E’ venuta l’ora della nostra liberazione.
Bisogna fare un’ azione contro i comunisti, bisogna andare a sparare contro di
loro il 1°maggio a Portella della Ginestra». Un cupo silenzio cadde sul gruppo.
Nessuno se la sentiva di chiedere
spiegazioni. L’unico che parlò fu Giovanni Genovese, il “vecchio“ del gruppo
con i suoi 35 anni che non nascose la sua contrarietà: «Turiddu, se devi prendertela con Li Causi, devi prendertela solo e
unicamente con lui e con gli altri capi comunisti. Chiunque altro non dovrebbe
entrarci in questa storia, figuriamoci dei poveri contadini o peggio, donne e
bambini». I due uomini si guardarono con durezza, pronti a tutto, poi
Genovese abbassò gli occhi e disse che non voleva essere coinvolto in questa
vicenda. Giuliano riprese a parlare spiegando il suo piano. L’obiettivo era il
sen. Girolamo Li Causi, capo indiscusso
dei comunisti siciliani. Aveva saputo che sarebbe stato presente il 1° maggio a
Portella delle Ginestre. Giuliano voleva catturare Li Causi, processarlo
davanti alla sua gente, per non avere mantenuto i patti di appoggiare e fare eleggere alle elezioni regionali Antonino Varvaro e
poi fucilarlo. Per tale motivo diede
ordine ai suoi uomini di radunare una ventina di uomini per la sera del 30
aprile. Il reclutamento era stato molto approssimativo e tutt’altro che
volontario. Gran parte erano “picciotti”, ancora minorenni, reclutati con la
promessa che “ a lavoro compiuto” avrebbero ricevuto 5.000 lire. Molti di loro
nemmeno sapevano di che tipo di “lavoro” si trattasse. Gioacchino Musso, un
ragazzo di appena 17 anni, fu avvicinato
da alcuni banditi e invitato a partecipare alla riunione del 30 sera. Di fronte
al suo iniziale rifiuto, i reclutatori, con tono minaccioso ripeterono: “Ha detto Turiddu che devi andare da lui, hai
capito?”. Il ragazzo abbassò il capo e accettò, non si poteva dire no a
Turiddu, pena la morte. La stessa scena si ripete con un altro ragazzo,
Giovanni Russo, “reclutato” mentre passeggiava, per i fatti suoi, per le strade
di Montelepre. Anche lui dovette accettare.
E così la sera del 30 aprile, in contrada Cippi, a pochi chilometri da
Montelepre, si ritrovarono una ventina di uomini. Giuliano, salì sopra un masso e iniziò a
parlare: “Domani è il primo maggio e i
comunisti si radunano a Portella della Ginestra per la loro festa. Questi
comunisti stanno prendendo troppo piede. Doppiamo fare un’ azione.” Di
fronte alle perplessità di molti presenti, Giuliano volle chiarire il concetto:
“vuol dire che gli andiamo a sparare”.
Il solito Giovanni Genovese, fu l’unico che espresse verbalmente il suo
dissenso: “ sarebbe una carognata, ci
saranno donne e bambini, lascia perdere Turiddu”. Ma Giuliano lo interruppe
gridando: “Domani spariamo ai comunisti”
e Genovese gli rispose sotto voce: “ io
non ci vengo”. Oltre a Genovese ci fu un'altra defezione, quella di Tommaso
Di Maggio, perchè “ troppo vecchio”. Gli altri partecipanti, dopo essere stati
armati, furono divisi in piccoli gruppi e iniziarono la loro marcia per
raggiungere Portella della Ginestra.
Percorrendo trazzere e angusti viottoli di montagna, nel buio della notte,
rischiarata da una pallida luna, finalmente raggiunsero la meta alle prime luci
dell’alba. Mentre si riposavano, stremati dalla lunga camminata, scorsero
quattro cacciatori alla ricerca di qualche coniglio da arrostire durante la “
mangiata” che avrebbe seguito la manifestazione politica. i Quattro furono
circondati e disarmati. ”Siete comunisti?”
gli chiese Giuliano e di fronte alla loro risposta negativa ( non del tutto
veritiera), Giuliano li fece legare e portare dietro una roccia, invitandoli a
non parlare e a non fare rumore se no…… . Giuliano divise i suoi uomini in due
gruppi. Lui, insieme a Frà Diavolo (Salvatore Ferreri), Giuseppe Passatempo,
Nunzio Badalamenti, Giuseppe Cucinella, Pietro Licari, Giuseppe Di Lorenzo,
Salvatore Pecoraro, Giuseppe e Fedele Pianello, Castrenze Madonia e Giuseppe
Genovese, rimasero sul monte Palavet. L’altro gruppo, che comprendeva Antonino
Terranova, Francesco Pisciotta, Francesco Palma Abate, Rosario Candela, Frank
Mannino, Francesco Motisi, Pasquale Sciortino e Angelo Taormina, doveva
raggiungere monte Kumeta. In tal modo la piana sarebbe stata completamente
sotto il tiro dei banditi. Tale gruppo non raggiunse mai la loro postazione e
perciò non partecipò alla strage, tesi ufficiale,, perchè la zona era piena di
Carabinieri, ma qualcuno sospetta che questa fu una scusa, per non ubbidire
agli ordini di Giuliano; anche loro, probabilmente, non erano d’accordo con la
strage. Intanto la piana cominciava a riempirsi di manifestanti e di bandiere
rosse. A piedi, a dorso di mulo, sui colorati carretti addobbati per la festa,
o in scassate biciclette, uomini, donne,
bambini, vecchi e giovani, con i vestiti della festa, scialavano contenti verso
il palco, dove tra non molto sarebbe salito l’oratore ufficiale: Mommo Li
Causi. Ma Li Causi, fu trattenuto a Palermo, da un altro impegno. Al suo posto
fu designato un giovane studente universitario, Francesco Renda, che tutto
contento partì con la sua motocicletta. Ma a Portella delle Ginestre, non
arrivò mai. Il destino fu più forte del suo entusiasmo giovanile. La moto si
guastò lasciando il futuro storico appiedato ad imprecare ingiustamente contro
la sua mala sorte. Di fronte alla gente che cominciava ad impazientirsi,
Giacomo Schirò, segretario della sezione del Partito Socialista di San Giuseppe
Jato, salì sul palco ( che nella realtà era un grosso masso ) per intrattenere
la gente, in attesa dell’oratore ufficiale. Tra uno sventolio di bandiere rosse
iniziò il suo intervento: “Amici, compagni, siamo qui riuniti…..” dopo fu
l’inferno.
“La vecchia credeva che
fossero mortaretti e cominciò a battere le mani festosa. Rideva. Per una
frazione di secondo continuò a ridere, allegra, dentro di sé, ma il suo sorriso
si era già rattrappito in un ghigno di terrore. Un mulo cadde con il ventre
all'aria. A una bambina, all’improvviso, la piccola mascella si arrossò di
sangue. La polvere si levava a spruzzi come se il vento avesse preso a danzare.
C'era gente che cadeva, in silenzio, e
non si alzava più. Altri scappavano, urlando come impazziti. E scappavano, in
preda al terrore, i cavalli, travolgendo uomini, donne e bambini. Poi si udì
qualcosa che fischiava contro i massi. Qualcosa che strideva e fischiava. E
ancora quel rumore di mortaretti. Un bambino cadde colpito alla spalla. Una
donna, con il petto squarciato, era finita esanime sulla carcassa della sua
cavalla sventrata. Il corpo di un uomo, dalla testa maciullata cadde al suolo
con il rumore di un sacco pieno di stracci. E poi quell'odore di polvere da
sparo.
La carneficina durò in tutto
un paio di minuti. Alla fine la mitragliatrice tacque e un silenzio carico di
paura piombò sulla piccola vallata. In lontananza il fiume Jato riprese a far
udire il suo suono liquido e leggero. E le due alture gialle di ginestre, la
Pizzuta e la Cumeta, apparvero tra la polvere come angeli custodi silenti e
smarriti.
Era il l° maggio 1947 e a Portella della Ginestra
si era appena compiuta la prima strage dell'Italia repubblicana: 11 morti, due
bambini e nove adulti e 27 feriti.
Tutti poveri contadini
siciliani. Che a sparare dalle alture, sulla folla radunata a celebrare la
festa del lavoro, fossero stati gli uomini del bandito Salvatore Giuliano, gli
italiani lo scopriranno solo quattro mesi dopo, nell’autunno del 1947. Ma mai
riusciranno a sapere chi armò la mano di quei briganti, comodi residui della
storia, incarnazione di un fenomeno del passato, che ancora sopravviveva nella
Sicilia dei compromessi e degli intrighi.
LE VITTIME
Questi sono le 11
vittime, così come riportate dalla pietra incisa posta sul luogo del massacro:
1.
Margherita Clesceri
2.
Giorgio Cusenza
3.
Giovanni Megna (18 anni)
4.
Francesco Vicari
5.
Vito Allotta (19 anni)
6.
Serafino Lascari (15 anni)
7.
Filippo Di Salvo (48 anni)
8.
Giuseppe Di Maggio (13 anni) Secondo alcune fonti il
bambino aveva solo 7 anni
9.
Castrenze Intravaia (18 anni)
10.
Giovanni Grifò (12 anni)
11.
Vincenza La Fata (8 anni)
Nella realtà i morti
furono 12, infatti, subito dopo , Giuliano, dopo aver liberato i quattro
cacciatori, invitò i suoi uomini a disperdersi. Mentre si allontanavano
incontrarono un campiere, Emanuele Busellino. Dopo averlo fermato, lo
perquisirono. In una tasca trovarono un biglietto che lo indicava come un
possibile confidente dei carabinieri. Giuliano non ci pensò due volte e uccise
il malcapitato con una raffica di mitra. Il corpo fu trovato, quattro mesi
dopo, in fondo ad un crepaccio, sembra grazie ad una soffiata del solito Fra’
Diavolo. Ci furono altri testimoni che rilasciarono una testimonianza mai del
tutto valutata adeguatamente dagli inquirenti e dagli storici e che lascia
molte perplessità. Alcuni ragazzi e alcune ragazze videro una scena che così fu verbalizzata:
«Quando abbiamo sentito gli spari e subito dopo le grida d’aiuto siamo usciti dal nascondiglio per vedere ciò che stava accadendo. In quel momento ci siamo accorti che dal monte Pizzuto stavano scendendo in fila indiana una decina di uomini armati. Uno di essi, che indossava un impermeabile bianco, bestemmiava come un turco e non faceva altro che ripetere:” disgraziati, disgraziati, chi facistivu».
«Quando abbiamo sentito gli spari e subito dopo le grida d’aiuto siamo usciti dal nascondiglio per vedere ciò che stava accadendo. In quel momento ci siamo accorti che dal monte Pizzuto stavano scendendo in fila indiana una decina di uomini armati. Uno di essi, che indossava un impermeabile bianco, bestemmiava come un turco e non faceva altro che ripetere:” disgraziati, disgraziati, chi facistivu».
I MANDANTI DELLA STRAGE
«Coloro che ci avevano fatto le promesse si chiamavano così: L’onorevole deputato democristiano on. Bernardo Mattarella,l’onorevole deputato regionale Giacomo Cusumano Geloso, il principe Giovanni Alliata di Montereale, l’onorevole monarchico Tommaso Leone Marchesano e anche il signor Mario Scelba. Furono Marchesano, il principe Alliata, l’onorevole Mattarella a ordinare la strage di Portella della Ginestra. Dopo le elezioni del 18 aprile 1948, Giuliano mi ha mandato a chiamare e ci siamo incontrati con Mattarella e Cusumano; l’incontro tra noi e i due mandanti è avvenuto in contrada Parrino, dove Giuliano ha chiesto che le promesse fatte prima del 18 aprile fossero mantenute. I due tornarono allora da Roma e ci hanno fatto sapere che Scelba non era d’accordo con loro, che egli non voleva avere contatti con i banditi.»
Tale dichiarazione fu fatta dal luogotenente di Giuliano, Gaspare Pisciotta, durante il Processo di Viterbo, nel 1951. Pisciotta, che erroneamente viene considerato cugino, da parte di madre, di Giuliano (nella realtà le madri, anche se si chiamavano Lombardo, non erano nemmeno parenti), il 9 febbraio 1954 fu ucciso, avvelenato con la stricnina, mentre si trovava rinchiuso all’Ucciardone di Palermo. Anche qui la storia ha erroneamente parlato di un caffè avvelenato, nella realtà il veleno era stato aggiunto nel flacone di un farmaco (Vidalin) che Pisciotta assumeva giornalmente, a causa della tubercolosi. Aveva chiesto, giorni prima, di parlare con il giudice perche aveva” nuove gravissime rivelazioni” da fare a “quattr’occhi”, ma il veleno arrivò prima delle sue rivelazioni
Il settimanale “Famiglia
Cristiana” ha pubblicato, in un articolo del 18 dicembre 2011, un servizio
esclusivo sulla Strage di Portella della Ginestra, dove sono descritte le
Conclusioni del Pm Pietro Scaglione,
ucciso dalla mafia il 5 maggio del 1971. In un documento del 1953, il procuratore
Scaglione parla apertamente di finalità anticomuniste della strage e di
rapporti tra le forze dell’ordine e il banditismo.
In una giornata
autunnale addolcita da un timido sole, dopo l’improvvisa telefonata di un
cronista giudiziario di lungo corso (avido di notizie sul bandito Salvatore
Giuliano, sul suo luogotenente Gaspare Pisciotta e sulla strage di Portella
della Ginestra), inizia una mia speciale “caccia al tesoro”
nell’archivio di mio nonno, il procuratore capo della Repubblica di Palermo,
Pietro Scaglione, assassinato il 5 maggio del 1971, insieme all’agente Antonino
Lo Russo.
Tra montagne di carte, sentenze, articoli, libri e requisitorie,
come per incanto, compaiono due preziosi documenti. Il primo è una copia in
carta carbone delle dirompenti “Conclusioni” dell’allora Sostituto procuratore
generale Pietro Scaglione negli “Atti
relativi ai mandanti della strage di Portella della Ginestra”, dove si
descrivono le finalità anticomuniste dell’eccidio e dove si denunciano i
rapporti tra il banditismo e le forze dell’ordine. Il secondo documento,
invece, è il reportage del giornalista Riccardo Longone, pubblicato in prima
pagina dal quotidiano “L’Unità” il 14 febbraio del 1954 e intitolato
“Pisciotta annunciò al magistrato nuove gravissime rivelazioni”.
La ricerca rappresenta
l’occasione per un’ appassionante viaggio nella memoria della “madre di tutte
le stragi “ Portella della Ginestra”. Tra la folla di uomini,
donne e bambini accorsi in quel tragico primo maggio di 52 anni fa nella
contrada palermitana di Portella per celebrare la Festa del Lavoro, nessuno
immaginava che il paradiso si sarebbe trasformato in un inferno. Anzi, in quel
clima gioioso, i primi spari furono confusi con i mortaretti e i fuochi
d’artificio. Ma ben presto, tra lo sgomento generale, si scoprirono i cadaveri
di persone e animali, colpiti dalla furia dei mitragliatori. I membri della
banda Giuliano (aiutati, secondo alcuni storici, da infiltrati fascisti e
americani) spararono sulla folla, uccidendo 11 persone e ferendone 27.
Una scena drammatica, ben descritta da mio nonno nella
sua inchiesta, come in un film: “La festa aveva così il suo epilogo più tragico
ed imprevisto. Impaurita, terrorizzata, la gente fuggiva disordinatamente in
cerca di un qualsiasi riparo contro il persistente e violento imperversare dei
colpi d’arma da fuoco. Urla di terrore, invocazioni di aiuto, accorate grida di
richiamo, lamenti, pianti, implorazioni, imprecazioni risuonarono nell’ampia
vallata anche dopo il cessare della violenta sparatoria”.
Ma quali furono le finalità della strage di Portella
della Ginestra, definita da mio nonno “delitto
infame, ripugnante e abominevole” Nelle Conclusioni del PM Pietro Scaglione
(datate 31 agosto 1953), i moventi principali accreditati furono i
seguenti: la lotta “ad oltranza” contro il comunismo che Giuliano “mostrò sempre di odiare e di osteggiare”;
la volontà da parte dei banditi di
accreditarsi come “i debellatori del comunismo”, per poi ottenere l’amnistia;
la volontà di “usurpazione dei poteri di
polizia devoluti allo Stato”; la “punizione”
contro i contadini che cacciavano i banditi dalle campagne; la “difesa del
latifondo e dei latifondisti”.
Mio nonno respinse il tentativo di coinvolgere il Pci
- operato dagli ambienti conservatori - e archiviò per assoluta infondatezza la
denuncia del giornalista Vincenzo Caputo contro il senatore comunista Girolamo
Li Causi. “Giuliano non strinse mai intese con il Partito comunista, verso cui
mostrò sempre la più irriducibile avversione e l’odio più tenace”, sentenziò il
magistrato Scaglione.
D’altronde, la storia stessa del banditismo smentiva
la tesi di Caputo (condivisa dal ministro degli Interni, Mario Scelba). Nei
sette anni del lungo dopoguerra siciliano, infatti, i principali bersagli della
banda Giuliano furono le sedi dei sindacati e dei partiti di sinistra: una
strategia anticomunista e anticontadina culminata nell’orrenda strage di
Portella della Ginestra.
Mio nonno scagionò da qualunque sospetto anche la
sinistra separatista siciliana dell’avv.
Nino Varvaro, che aderì al Blocco del Popolo, il fronte unitario delle forze
socialiste e comuniste. La ragione era semplice: Giuliano “si orientò politicamente genericamente verso i partiti anticomunisti,
come risultò dalle deposizioni dei suoi familiari”, quindi non avrebbe mai
potuto stringere accordi con il Blocco del Popolo.
Nelle sue Conclusioni,
invece, il PM Scaglione parlò di “crisma della verità” per le sconvolgenti
rivelazioni di Gaspare Pisciotta, luogotenente di Salvatore Giuliano, in
relazione ai rapporti tra banditismo, mafia e forze dell’ordine. Un ritratto inquietante degli anni in cui il Ministero degli Interni
concesse un singolare “attestato di benemerenza” per Pisciotta. In particolare,
un Ispettore generale di Pubblica Sicurezza intrattenne “amichevoli incontri
con il capobanda Giuliano, allietati da soffici panettoni e liquori”; un
ufficiale dei carabinieri concesse a Pisciotta “generosa ospitalità e
amichevoli attenzioni”; un generale dell’esercito offrì allo stesso Pisciotta
“un regolare passaporto perché potesse liberamente espatriare e sottrarsi così
alle sanzioni della legge per tutti i gravissimi delitti commessi”.
Nell’inverno del 1954, rinchiuso in una cella
dell’Ucciardone (il carcere borbonico di Palermo), Gaspare Pisciotta chiese di
incontrare un magistrato per confessargli “nuove sconvolgenti
rivelazioni”. Accompagnato da un
cancelliere, il sostituto Pietro Scaglione si recò nella cella di Pisciotta,
per interrogarlo, ma il luogotenente di Giuliano chiese di parlare “a
quattr’occhi” con il magistrato, senza la presenza di altre persone. Mio nonno
disse che la presenza del cancelliere era indispensabile per verbalizzare le
sue rivelazioni, e Pisciotta, chiese una pausa di riflessione.
Non vi fu più tempo. Il 9
febbraio del 1954, infatti, Gaspare Pisciotta morì avvelenato con la stricnina, contenuta in un cucchiaio di Vidalin e non nel leggendario caffè corretto
(come si era creduto per tanti anni). Ma chi tappò per sempre la bocca ad uno
scomodo pentito, depositario di inquietanti segreti sulla strage di Portella
della Ginestra e sugli inconfessabili accordi tra il potere e la malavita?
Indagando sulla morte di Pisciotta, il sostituto
procuratore Pietro Scaglione parlò apertamente di responsabilità dell’alta
mafia, che aveva già ucciso numerosi sindacalisti nemici del latifondo. Una
lunga scia di sangue culminata proprio nell’assassinio di mio nonno nel 1971,
un’altra data storica che segnò l’inizio dell’attacco contro la magistratura.
CONCLUSIONI
Prima di morire per mano di Pisciotta, Salvatore Giuliano spiegò con queste parole il perché della Strage di Portella della Ginestra:
“Non si poteva restare indifferenti davanti all’avanzata diabolica della
canea rossa, la quale, allettando con insostenibili e stolte promesse i
lavoratori, ha sfruttato e si è servita del loro suffragio per fare della
Sicilia un piccolo congegno da servire al funzionamento della macchina
sovietica”.
Giuliano venne ucciso a
Castelvetrano il 5 luglio 1950. All’inizio si disse che la morte era
avvenuta durante un conflitto a fuoco con i carabinieri. Successivamente la versione cambiò e si arrivò alla conclusione
che ad ammazzarlo era stato il suo luogotenente, Gaspare Pisciotta, avvelenato
a sua volta in galera nel 1954 dopo aver manifestato la volontà di rivelare i
nomi dei mandanti. Attualmente vi sono forti dubbi che Pisciotta sia stato l'autore materiale dell'omicidio e
si ipotizza che Giuliano fosse stato ucciso altrove, ciò è stato fatto
osservare nella trasmissione Blu notte di Carlo Lucarelli, ed emerge anche, dal lavoro di Alberto Di Pisa e Salvatore Parlagreco. In
parole povere, a Castevetrano, si inscenò una macabra finzione per distogliere
l’attenzione sui reali fatti accaduti. Si è forse capito del perché della
strage, ma non si è mai capito invece chi è stato il vero mandante. Mafia, politica,
iniziativa personale, fascisti, servizi segreti USA preoccupati dell’espansione
delle sinistre in Italia, latifondisti siciliani. Certamente i documenti del
P.M. Pietro Scaglione, aprono uno spiraglio importante sulla strada della
verità.
LE DOMANDE ANCORA SENZA RISPOSTE
Questa è una di quelle storie che, quando pensi di aver capito tutto, ti accorgi che rimangono tanti lati oscuri, tante incertezze e tante domande, le cui risposte potrebbero rimettere in discussione le nostre certezze:
-
Perchè
i carabinieri di Montelepre non si accorsero che la sorella di Giuliano si
stava sposando sotto i loro occhi, alla presenza di tutta la banda ?
-
Chi
diede loro l’ordine di starsene tranquilli in caserma e perché?
-
Chi
mandò la famosa lettera recapitata a Giuliano dal cognato?
-
Cosa
conteneva di tanto importante da costringere Pasquale Sciortino ad interrompere
la sua “ luna di miele” per recapitarla, subito, al cognato?
-
Come
mai il confidente della polizia, Fra’ Diavolo ( Salvatore Ferreri) non informò
chi di dovere?
-
Come
mai furono risparmiati, da Giuliano, i quattro cacciatori, che erano dei
testimoni oculari scomodi?
-
Perché
ci vollero ben quattro mesi per indicare nella “banda Giuliano” i responsabili
della strage?
-
Quale
fu il ruolo della mafia e dei servizi segreti italiani e americani?
-
Che
ruolo ebbero i vari politici del centro destra ( Giacomo Cusumano Geloso, il
principe Giovanni Alliata di Montereale Bernardo Mattarella e Tommaso Leone
Marchesano?
-
Perché
il sen. Girolamo Li Causi rinunciò ad andare a presiedere alla manifestazione
di Portella?
-
Che
ruolo ebbe nella vicenda il ministro degli interni Mario Scelba?
-
Che
interpretazione dare alla testimonianza di quei giovani che sentirono gridare
Giuliano: “disgraziati, disgraziati, chi facistivu?”
-
Che
ruolo ebbero i servizi segreti e la mafia italo-americana?
Ci sarebbero ancora
tanti dubbi e tante domande che ci affollano nella mente. Chi sa se un giorno
sapremo la Verità.
Da “La Sicilia delle
stragi” di G.C. Marino La strage di
Portella della Ginestra e i misteri della politica: “C’è forse un sentire
sempre nuovo nel reiterare il racconto di funesti eventi del passato, come
avveniva nell’antica Grecia per le rappresentazioni teatrali della tragedia…..”
Per una più completa
informazione e per una più esauriente analisi si rinvia alla lettura delle
opere di insigni esperti storiografi. Questo breve saggio, vuol semplicemente
rinverdire la memoria, di un episodio, che ancora oggi, reclama verità e
giustizia.
Bibliografia
- Francesco Petrotta, Portella della Ginestra.
La ricerca della verità. Ediesse, 2007
- Francesco Petrotta, La strage e i depistaggi.
Il castello d'ombre su Portella della Ginestra, 2009, Ediesse.
- Pietro Manali (a cura di), Portella della Ginestra
50 anni dopo (1947-1997), S. Sciascia editore, Caltanissetta-Roma, 1999.
- Francesco Renda, Portella della Ginestra e la
guerra fredda. I cento anni della Cgil siciliana. Conversazioni con
Antonio Riolo, 2008, Ediesse.
- Umberto Santino, La democrazia bloccata. La
strage di Portella della Ginestra e l'emarginazione delle sinistre,
1997, Rubettino.
- Carlo Lucarelli, Il bandito Giuliano in Nuovi
misteri d'Italia. I casi di Blu Notte, pp. 3-24, Torino, Einaudi,
2004..
- Paolo Sidoni- Paolo Zanetton Cuori rossi contro cuori neri. Newton Compton Editori
- Giuseppe Casarrubea, Fra' Diavolo e il governo
nero. «Doppio Stato» e stragi nella Sicilia del dopoguerra, Franco
Angeli editore.
- Giuseppe Casarrubea, Portella della Ginestra.
Microstoria di una strage di Stato, Franco Angeli editore.
- Giuseppe Casarrubea e Mario J. Cereghino, Salvatore
Giuliano. Morte di un capobanda e dei suoi luogotenenti.
- Carlo Ruta, Il binomio Giuliano-Scelba. Un
mistero della Repubblica?. Rubbettino editore, Soveria Mannelli, 1995.
- Carlo Ruta, Giuliano e lo Stato. Documenti sul
primo intrigo della Repubblica. Edi.bi.si., Messina, 2004.
- Carlo Ruta, Il processo. Il tarlo della
Repubblica. Eranuova, Perugia, 1994.
- Girolamo
Li Causi, Portella della ginestra. La ricerca della verità
2007, Ediesse.
- Angelo La Bella, Mecarolo Rosa, Portella della
Ginestra. La strage che ha cambiato la storia d'Italia, 2003, Teti.
- Giuseppe Casarrubea, Storia segreta della
Sicilia. Dallo sbarco alleato a Portella della Ginestra, Bompiani
- Giuseppe Carlo Marino La
Sicilia delle stragi
- Salvatore Vaiana, La
strage di Canicattì
- Salvatore Vaiana, PerlaSicilia
(blog)
- Dino
Paternostro, La lunga strage dei contadini 1944-1965
Rosa
Faragi
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