Presentiamo un libro e i suoi tre autori. Il primo, Salvatore Fratantonio, scrive poesia che si vede e non si legge. Enza Giurdanella e Diego Guadagnino , dipingono poesia che si legge e non si vede.
Il titolo del libro,”Memorie Mediterranee”, è da solo un magnifico poema e, al tempo stesso, una bozza sommaria, ma esauriente, per un buon trattato di storia siciliana… Chiudete gli occhi, tastate le due parole nel palato dell’anima, come un vino generoso, e il vostro pensiero andrà a Creta, l’aspra e gentile Creta, con le sue fanciulle che sembrano dee adolescenti e i suoi ragazzi, creature celesti che si librano nell’aria, sopra la testa del Minotauro…
“I giovani di Creta avevano vita sottile e fianchi rotondi…”, disse Salvatore Quasimodo.
Nella stiva delle loro “concave navi” ci portarono la Triskele, diadema della Grande Madre Mediterranea, e la piantarono qui, affinché ondeggiasse per sempre nello stendardo dell’Isola triangolare.
Atene impregnò fino al midollo le nostre montagne e le nostre pianure con i suoi miti struggenti e feroci. Con le sue navi ci raggiunsero la geometria del tempio della Concordia, la filosofia, e i teoremi pitagorici. E ci donò Omero, il divino raccontatore di favole e di storie, il Patriarca della Poesia.
Oggi i nostri piccoli “contabili” europei la stanno lasciando agonizzare ai bordi della strada…
Va il nostro pensiero riconoscente all’Egitto, sinuoso ed esoterico, che circumnavigò anche lui le nostre coste e ci lasciò sui promontori i sacrari dell’accogliente madre Iside. …
Va a Ortigia, chiara, diafana sul mare, dove Platone s’illuse di poter costruire la sua Repubblica Ideale e dove un giorno, molti anni fa, restai per ore ed ore ad ascoltare la canzone di Aretusa, che giocava con cefali e papiri pensando ad Alfeo, l’innamorato fedele.
Va a Roma e a Cartagine, ai suoi condottieri, ai suoi giuristi, ai suoi ingegneri imperiali.
Va ai vicini dell’altra sponda, all’ Islam, che alcuni secoli più tardi saturò le nostre città e le nostre contrade di civile eleganza, di scienza e di tecnica. Va al maomettano siculo Ibn Al-Qattà il quale, tra il 1041 e il 1121 ci insegnò a coltivare la filologia e la grammatica, preparando così la nostra terra affinché fiorisse qui la prima lingua letteraria italiana.
Va al poeta ispano arabo Ibn Giubayr, che sostò a Palermo nel 1184, al tempo di Guglielmo II e, meravigliato della loro bellezza, diceva di vedere “antilopi e gazzelle” quando gli passavano accanto le donne siciliane.
Memorie Mediterranee! Chiudiamo gli occhi ancora e seguitiamo a pensare al tempo dei normanni: insieme a loro i siciliani, ancora ricchi di sapere islamico, realizzarono la stupenda sintesi tra l’arte raffinata dell’ Oriente e i tentativi incerti e rozzi dei capomastri dell’Occidente.
Pensiamo a Federico II, a Giacopo da Lentini, a Ciullo d’Alcamo e agli altri che scrissero i primi versi in lingua italiana.
Il Mare Nostrum ribolliva di sapere in transito. Era il cortile interno di popoli in movimento, dove si trattavano gli affari e si discutevano i fatti del momento: ed erano sempre, in un modo o nell’altro, fatti di civiltà. Nella corte di Palermo e nelle Scuole di Traduttori di Sevilla e di Toledo uomini di cultura e di religione islamica, nonostante il nostro terrorismo teologico e le Crociate, traducevano il sapere antico affinché la balbuziente cultura cristiana potesse nutrirsi e crescere…
Scusate il lungo preambolo, ma il titolo del vostro libro lo esigeva.
Perché di questo parlate, di Memoria…
Parafrasando l’aforisma del filosofo spagnolo Josè Ortega y Gasset che definiva l’essere umano dicendo : “Io sono io e la mia circostanza”, possiamo dire: Noi siamo noi e tutti coloro che ci hanno preceduto nei secoli dei secoli. Loro ci sostengono e ci sospingono.
La memoria è come un grande seno materno nel quale trovano feconda accoglienza le sensazioni e le idee, i dolori e gli estasi di tutta l’umanità; le opere e i progetti delle opere.
A tempo debito la Memoria partorisce sia le une che gli altri.
Se non ci fosse la Memoria non ci sarebbe neanche la Speranza.
La vostra poesia e la vostra pittura sono creature della memoria, germogli di nuova umanità.
Gli alberi di Fratantonio sono sonori come la poesia di Giurdanella. I versi di Guadagnino sono equilibrati e profondi come le radici di un albero di Fratantonio.
Nessuno scienziato può sentirla e interpretarla come la sente e l’interpreta il poeta. Lo scienziato la scruta con il microscopio, attrezzo incapace di coglierne altro che margini e aggettivi. Il poeta la sente con il cuore, unico organo in grado di percepirne l’essenza, le infinite relazioni che legano l’uomo e la sua drammatica vicenda alla formica e alle costellazioni. Lo scienziato si limita a studiarla. Il poeta aspira a fondersi con essa. Ogni poeta è un mistico.
Così rientriamo nel solco di Benito Espinosa, evocato nella prefazione del libro da Calogero Castellana.
“Natura sive Deus”. La Natura e Dio sono la stessa cosa. E noi, con i nostri sogni , i nostri lamenti e le nostre grida di felicità, apparteniamo all’uno e all’altra.
A che serve la poesia? Ha una finalità concreta, apprezzabile, o è soltanto un lusso?
Molti dicono che è soltanto un lusso, e che, come tutte le cose superflue, è di scarsa utilità.
Pablo Picasso, invece, era solito dire che la pittura e la poesia non sono fatte per decorare una casa o per agghindare una libreria. Diceva che sono macchine da guerra indispensabili. E non gli mancava ragione. Il suo quadro “Guernica” ha sollevato nella coscienza umana una consapevolezza infinitamente più consistente della distruzione che gli Yunkers tedeschi arrecarono alla cittadina vasca nel 1937.
Quando Giurdanella scrive:
“…Con rabbia chiusi
quei libri di memorie
per impedire ai miei occhi
di guardare ancora,
vergognandomi
di quelle assurde atrocità”,
e quando Fratantonio dipinge i suoi quartieri disabitati, la parola e il colore diventano proiettili scagliati contro coloro che hanno disumanizzato l’arte e sottratta l’umanità all’ uomo.
Così arriviamo al discorso che Salvatore Quasimodo pronunciò a Stoccolma il giorno del Premio Nobel:
“Un poeta è tale quando non rinuncia alla sua presenza in una data terra, in un tempo esatto. Poesia è libertà e verità di quel tempo e di quel luogo, e non modulazioni astratte del sentimento”.
Il poeta, dice ancora nello stesso discorso, “ …modifica il mondo. Le sue immagini battono il cuore dell’uomo più della filosofia e della storia. La poesia si trasforma in etica, proprio per la sua resa di bellezza. La sua responsabilità è in diretto rapporto con la sua perfezione”.
Il poeta non è l’anonimo giullare della domenica; è il pedagogo e il legislatore che, senza pensare minimamente alle pedagogie o alle leggi, cesella come un orafo la sensibilità dei popoli. Conosce una legge di gravità opposta a quella delle leggi fisiche, con la quale spinge l’uomo verso l’alto, verso le cime.
La poesia è’ il sale e il lievito della vita umana.
Che vita sarebbe la nostra se non fosse sociale?
Come avete sentito dalla cronaca, in questi ultimi tempi, in Italia e in Europa, molti stanno scegliendo il suicidio perché alcuni signori della finanza stanno cercando con ogni mezzo di spiantare la Poesia dalle nostre coscienze per coltivare, al suo posto, il “calcolo virtuale”.
Se un giorno venissero a mancarci del tutto i poeti, la terra diventerebbe simile al “paese dei morti”, all’Ade, i cui abitanti sono ombre grigiastre che scivolano e non sanno il proprio nome.
Le nostre orecchie rimarrebbero aperte al tonfo dei corpi che cadono, ma non saprebbero percepire il Silenzio, in seno al quale avvengono le germinazioni e le nascite.
Immaginate il poeta Fratantonio intento a dipingere “ La mia ombra”: Un albero solitario in cima a una collina. E, in basso, ai piedi del pòggio dorato, un’ombra umana che guarda e ascolta l’Ordine Infinito. Un poeta in estasi di fronte alla totalità dell’Essere…
Il Poeta è il più solitario degli esseri umani, perché sente e vede dove gli altri uomini sono ciechi e sordi. E, al tempo stesso, è il più corteggiato, non solo perché i sordi e i muti lo inseguono per poter imparare a sentire e a vedere ma, soprattutto, perché è sempre in compagnia di un angelo con il quale conversa giorno e notte.
Tutti i poeti hanno il loro angelo personale, come Socrate aveva il suo daimon.
Che nessuno si stupisca se chiamo Socrate tra i poeti. La sua ricerca della Verità non fu altro che l’inseguimento appassionato della Bellezza. Ricordate come ce lo descrive Platone nel Convivio, immobile per ore in mezzo agli altri, assorto nel suo eterno colloquio con il daimon?
Federico Garcia Lorca ebbe il suo Duende, un angelo gitano, in compagnia del quale viaggiò nei cieli affinché le Costellazioni potessero sentire la musica del suo Romancero.
E Rainer Maria Rilke conobbe, a Toledo, davanti ai dipinti di Domenico El Greco, l’Arcangelo terribile delle sue incomprensibili e meravigliose Elegie di Duino.
Enza Giurdanella, Salvatore Fratantonio e Diego Guadagnino sanno di essere poeti. Lo sanno come sanno di essere vivi, di respirare . Non hanno bisogno di conferme, di attestati protocollati dai critici. I critici non sanno che cosa sia la Poesia. Non sanno creare bellezza. Sanno soltanto disquisire sulla bellezza. Se il destino della Poesia fosse lasciato in mano ai critici, non esisterebbe la poesia e tutti noi saremo orfani. Capiterebbe ciò che è capitato alla teologia: la abbiamo affidata con troppa leggerezza ai teologi di professione e ora, dopo duemila anni, ci accorgiamo che non sappiamo niente di Dio!
I nostri tre amici sanno di essere poeti e di avere il loro angelo, anche se, forse, non gli hanno dato ancora un nome.
Mentre loro dormono, l’angelo sommozzatore si tuffa negli abissi e al alba ritorna fischiettando con un carico di metafore e di immagini.
Al risveglio, Enza Giurdanella canta: “… alla notte chiedo di accendere pensieri…”
E, rivolgendosi a Fratantonio, dice : “… Da lì alzerai lo sguardo / e ti accorgerai quanti Dei/ invidieranno i tuoi pensieri…”.
Ricorda l’atroce barbarie che convertì l’Europa del secolo ventesimo in un’immensa palude di sangue innocente e scrive: “…Un giorno ad Auschwitz mi fermai / consapevole di ogni colpa…”
La poesia di Enza è rapida, veloce, come di chi intende colpire. Non vuole solo convincere. Ci sono nei suoi versi fulmini e raffiche di grandine, e raggi di sole che offuscano e allargano lo sguardo.
Quella di Diego Guadagnino è più discorsiva, più pacata, più vicina al colloquiare quotidiano. Tra i suoi versi si sente il passo del poeta meditativo. Il suo “duende” suona uno strumento più lento, più compassato:
“…Assorti dentro un sogno/ rubato agli orizzonti/ sassosi degli Iblei/ questi carrubi solitari/ nel colore ci dicono /chi sei… /Ma se l’occhio / respira l’oro chiaro dei deserti/ dove cade all’infinito ogni abbandono,/vegetali eremiti /nel silenzio mi dicono/
chi sono…” .
In un altro poema Guadagnino scrive: “foglie che odorano di tempo…”
Di tempo, mio caro Diego, o di Eternità?
Come tu ben sai, il tempo non esiste. E’ soltanto un’illusione. L’istante che fugge non è altro che il continuo incarnarsi dell’Eterno. La cultura occidentale è cronometrica, ma la nostra vera dimensione non è soggetta ai cronometri. E’ una rivelazione perenne dell’Eternità. Anche Empedocle, se fosse qui questa sera, ci direbbe che sull'’irrealtà del tempo è quasi interamente d’accordo con Agostino di Ippona e concorda pienamente con Albert Einstein.
E gli alberi di Fratantonio…? Questi tronchi dalla corteccia morbida come pelle di bambino, che durano, che presiedono e seguiteranno a presiedere, per generazioni e generazioni la presenza umana sulla terra?
Quanta poesia, quanta ingegneria, quanta scienza e, persino, quanta teologia in una foglia che sembra andarsene con le stagioni, e invece rimane e continua a risvegliarsi in una teoria infinita di metamorfosi…
E le sue case disabitate, i suoi quartieri senza presenza umana sono un lamento per gli uomini di questo secolo, ridotti a “inquilini del cemento”, che non hanno potuto sapere che cosa significa “abitare”,
perché alcuni “voraci ragionieri e geometri tagliavano a fette la superficie della terra e la divoravano…”
Enza, Salvatore e Diego, sono poeti per grazia di Dio, come si era re nell’antichità.
Con la bella traduzione in lingua francese di Calogero Castellana la loro voce mediterranea si è fatta europea.
Con il lungimirante patrocinio del Hotel Conte di Cabrera il sole e le cicale degli Iblei porteranno il calore del Sud nei paesi del Nord e qualcuno, lassù, aprirà di tanto in tento le valigie della memoria e si siederà all’ombra dei carrubi siciliani per poter ascoltare la perenne musica che sgorga dalla matematica schiettezza dei templi greci e dalla concitata armonia delle facciate barocche. Qualcuno si fermerà per respirare gli odori di una terra che gli Dei dell’antichità crearono artigianalmente perchè fosse la loro dimora estiva. Qualcuno, insieme con la voce scritta o dipinta, con il volo dei gabbiani e il fruscio delle colombe al tramonto, ricorderà il nostro sogno di una civiltà che avrebbe dovuto essere compiuta, ormai, e che non ha raggiunto, ancora, né al Nord né al Sud, neppure la acerba adolescenza.
Forse dopo aver sentito queste mie parole alquanto cariche di “pathos”, qualcuno sarà tentato di pensare: Se questo signore parla con tanto entusiasmo di poeti che non sono arrivati, ancora, all’Accademia di Stoccolma e di dipinti che non si vendono nelle aste internazionali a suon di milioni, che cosa avrebbe detto se gli avessimo chiesto di parlarci di Raffaello, di Leonardo da Vinci o di Dante Alighieri?
Avrei risposto che in un umile filo d’erba c’è tanta perfezione come nel più alto cedro del Libano. Che senza l’anonimato del sottobosco, che con i suoi umori nutre le radici e le sospinge verso il cielo, non ci sarebbe alcun albero da premiare a Stoccolma.
Che ci sono negli angoli sconosciuti della foresta tropicale orchidee di sublime bellezza, che nessun’occhio umano ammirerà, che non saranno mai premiate nelle esposizioni floreali.
Che molti uomini e donne mai apparsi sugli schermi televisivi sarebbero degni di un premio Nobel della Pace, anche se nessuno li premierà a Stoccolma.
Che la Natura è più saggia dei critici e dei giudici letterari.
Che alla Natura non interessano i premi. Non ci chiederà mai quale posto occupiamo nella scala dei valori cronometrici della fama. Le basta sapere che esistiamo.
E’ una madre, e una madre che si rispetta non chiede al figlio di diventare primo ministro o amministratore delegato di qualcosa. Le basta sapere che esiste, che vive.
La poesia non è più poesia quando è celebrata dalla fama. E’ poesia quando la senti scorrere nelle arterie della parola come scorre il sangue nelle vene
Gonzalo Alvarez Garcia
Palermo, 15.05.2012
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