GIUSEPPE CARLO MARINO, Globalizzazione capitalistica e rivoluzione elettronico-informatica: una nuova pista per l'interpretazione del nostro tempo. Il tramonto della democrazia e la nuova era del populismo

Nel pormi dinanzi alla questione specifica della cosiddetta “globalizzazione” con l’intento di evidenziarne la portata di processo di cambiamento “strutturale” e di metamorfosi antropologica del quadro di costumi e di valori che si è soliti ricondurre al termine “civiltà” − al di là della stessa dimensione dell’economia nella quale il fenomeno è fondamentalmente registrato e variamente interpretato – sono stato guidato nel giudizio da un’analisi che avevo già svolto addirittura un decennio fa, quando la globalizzazione era ancora argomento acerbo di non molti studiosi, in un mio libro di piuttosto scarsa fortuna (Eclissi del principe e crisi della storia, Milano, Angeli 2000), scritto con le intenzioni di quei naufraghi che consegnano i loro estremi messaggi ad una bottiglia chiusa, affidata alle onde del mare. Adesso, mi trovo io stesso nella fortunata condizione di aver ritrovato quella bottiglia e, riaprendola, di verificare che a tanta distanza di tempo quel che allora era acerbo adesso è diventato maturo.
Allora, nell’anno 2000, alla svolta di un millennio, era ancora prevalente l’euforia per un mondo che sembrava avere recuperato unità e compattezza di prospettive di sviluppo, di fini e di valori universalmente condivisi (la “democrazia”, le libertà diffuse e a portata di mano anche laddove ancora erano ignote o ignorate, la pace perpetua in una prospettiva di generale appagamento dei bisogni al segno del trionfo di un provvido capitalismo ritornato alla sua natura originaria di motore della “Felicità delle Nazioni”); regnava, in un orizzonte mondiale improvvisamente riunificato, una sorta di pace dopo la tempesta, al di là della cupa età della guerra fredda segnata dallo scontro tra il cosiddetto “mondo libero” e il rosso “impero del male” con il suo corredo di “Stati canaglia”. C’era, in quel clima (l’autore in voga era un sociologo nippo-americano che si chiama, come è noto, Fukujama), chi inneggiava addirittura alla “fine della storia”, ritenendo che ormai il tempo sarebbe andato avanti lineare e senza scosse sul tracciato delle sicu-rezze indotte da un immaginario trionfo della “libertà” . A lui, e a molti altri della sua parte americanista, sembrava ormai definitivamente assicurato che quell’immaginario trionfo fosse cosi stabile e sicuro da eliminare la differenza tra il presente e il futuro.
Oggi non c’è chi non veda quanto di provocatoriamente ingannevole e di scriteriato, e persino di insultante per la ragione, ci fosse in quella con-tingente euforia che aspirava a stabilizzarsi come una definitiva weltan-schauung. Però, non è diffusa la consapevolezza di quanto di irreversibilmente sconvolgente è effettivamente accaduto e sta ancora accadendo, con forte accelerazione dall’ultimo decennio del secolo scorso[1]. Scontato che la storia, in quanto storia, non finisce e non può finire, la stessa “globalizzazione” evidenzia che si è definitivamente chiuso il capitolo di una certa fase storica. Ed è proprio di quel che consegue alla chiusura di tale capitolo (in termini di cambiamenti epocali dalle assai incerte prospettive per il futuro) che qui intendo riflettere.
Il capitolo definitivamente consegnato al passato è quello apertosi a fine Settecento con la cosiddetta “rivoluzione industriale” (coincidente, in altri termini, con una lunga fase storica che si è correntemente intestata alla cosiddetta “modernizzazione”). Non è facile rendersene conto, così come non era facile, a fine Settecento, rendersi conto che si stava chiudendo in via definitiva – sotto la spinta progressiva dei nascenti processi di “industrializzazione” − la lunga fase storica segnata dall’egemonia (tanto economica, quanto sociale) della forma di produzione agraria.
Per quanto sia difficile, come ho detto, rendersene conto, mi sembra scontato che dagli anni Ottanta del secolo scorso in poi, abbia preso a evidenziarsi, e a svilupparsi continuativamente, con ritmi via via esponenziali, un processo di rottura della cosiddetta “modernità”; un processo, in breve tempo destinato a mettere in liquidazione l’intera dinamica e la morfologia strutturale della “rivoluzione industriale” (sia della prima avviatasi a fine Settecento, sia della seconda periodizzata tra la fine dell’Ottocento e il successivo Novecento). Un processo di rottura e di radicali innovazioni, questo, che sarebbe errato considerare (così come ancora largamente avviene) come una “terza rivoluzione industriale” e che è invece più ragionevolmente rappresentabile − nel suo farsi soprattutto nell’Occidente capitalistico (ma anche in numerose realtà dell’ex Terzo mondo) − come una nuova ri-voluzione strutturale, al di là della lunga età dell’industrialismo, caratterizzata dalla sempre più netta preminenza dell’asse tecnologico-scientifico collegato alla produzione e alla gestione dei servizi, nonché dalla contestuale preminenza di un sempre più anonimo, sovranazionale ed autoreferenziale potere decisionale del capitale finanziario, a scapito del tradizionale ancoraggio dell’economia alla produzione di beni industriali dentro e all’ombra delle fabbriche “fordiste” in assetti di mercato che, per quanto “concorrenziali” tra loro e aperti al mondo, erano pur sempre alimentati da interessi pervicacemente perseguiti entro confini nazionali.
Per la prima volta in assoluto, nell’anno 2000, questa nuova rivoluzione l’ho chiamata “rivoluzione elettronico-informatica” e mi piace adesso sia segnalare la primazia, sia mantenere tale definizione. Essa, la nuova rivoluzione, sembra consistere in una sorta di reazione anti-industriale e “anti-moderna” (almeno nel senso di determinare un superamento radicale dell’età propria dell’industrializzazione e della vecchia “modernità” verso un modello di industria che appare nettamente alternativo rispetto a quello che l’ha preceduto) manifestatasi in diretto rapporto con gli sconvolgenti progressi della scienza e della tecnica che hanno paradossalmente indotto, e in certo senso costretto, lo stesso capitalismo industriale a consegnare proprio alla “de-industrializzazione” il suo futuro. Il neologismo postmoderno che ha avuto molta fortuna nel registrarne il senso (anche culturale) in itinere, implica un costante riferimento , appunto, alla “de-industrializzazione” che è la fondamentale dinamica del processo rivoluzionario in corso. Ne consegue uno scenario al quale ci stiamo abituando contrassegnato, tra l’altro, da una crescente invocazione ecologista di vincoli da imporre alle strutture produttive: la rapida liquidazione dell’organizzazione taylorista del lavoro, a vantaggio di sistemi massiccia-mente automizzati, regolati da robot e affidati, ben più che ai tradizionali operai, al controllo tecnico delle “tute bianche”; la modificazione profonda indotta nel concetto stesso del valore economico dal sempre più evidente primato delle informazioni e dei servizi; la dimensione mondiale delle attività per la di formazione e gli spostamento dei capitali e della dinamica degli affari in un mercato globale dotato di una colossale rete unificata di comunicazioni, funzionante in tempo reale; la corsa alle “innovazioni sulle innovazioni”, con ritmi impressionanti anche per chiunque venga da non troppo lontane esperienze del passato[2]. Tutto questo, ovviamente, senza che i fattori e gli elementi costitutivi del passato industriale vengano eliminati; sono, piuttosto, riassorbiti e innovati: senza dubbio la produzione industriale ancora esiste e continuerà ad esistere in futuro (così come agricoltura e contadini sono sopravvissuti all’interno della “rivoluzione industriale!); solo che gli spostamenti nell’ordine delle priorità del sistema determinati dalla nuova rivoluzione “elettronico-informatica” stanno caratterizzando un’età nella quale non è più l’industrialismo il tratto distintivo e domi-nante.
Veniamo adesso ai principali effetti di tale rivoluzione (evidenti in una rappresentazione ormai diffusa che chiamasi “globalismo”) sulle condizioni sistemiche, sociali e politiche, sulle quali si impiantano e si sviluppano i rapporti tra “potere e cittadinanza”.
Un primo effetto, in evidente rapporto con la “de-industrializzazione”, è il tramonto della tradizionale “classe operaia”, e della conseguente sog-gettività operaia, che era stata centrale sia nell’orizzonte di sviluppo che nelle interne contraddizioni della rivoluzione industriale. Il che non equivale affatto a profetizzare una fine definitiva degli operai quali produttori della nuova fase storica, tenuto conto del fatto incontestabile che i contadini, vittime a loro volta di un analogo processo di lungo periodo avviatosi con la rivoluzione industriale, come ho già ricordato sopra, esistono ancora. Ma nessun nuovo Marx punterebbe oggi su un avvenire rivoluzionario affidato ad una classe operaia in evidente stato di liquidazione. Né basterebbe estendere il concetto all’intero mondo del lavoro, perché si tratta di un mondo così complesso, eterogeneo e contraddittorio che risulta impossibile rappresentarlo “scientificamente” (come Marx avrebbe voluto) come una classe portatrice di ben riconoscibili istanze storiche. La stessa morfologia di una società articolata in “classi” è sempre meno credibile, perché se è vero che non è affatto venuta meno (ma si è addirittura potenziata) la differenza tra una potente minoranza di “sfruttatori” e una larga minoranza di “sfruttati”, stanno velocemente cambiando le aggregazioni sociali corrispondenti a queste due opposte condizioni. In ogni caso, molto meno che per il passato, o nient’affatto, sono rappresentabili nel tradizionale conflitto tra padronato e proletariato.
Un secondo effetto, strettamente collegato al primo, riguarda la tradizione borghese. Se la classe operaia è moribonda, la borghesia non gode proprio di buona salute. Anche per essa vale quanto ho già detto per gli operai. Certamente continueremo a vedere parecchie persone del tutto simili ai borghesi di una volta. E’ scontata la riconoscibilità di antiche pratiche di classe e di conformi mentalità e stili di vita, oltre che in sopravviventi nic-chie tradizionaliste, nell’area delle stesse forze che appaiono oggi dominanti (finanzieri e imprenditori, dirigenti e manager, ricercatori e maitre à penser dell’informazione, ecc.) . Tuttavia colpisce il fatto che si stiano rapidamente disgregando le tradizionali e consolidate forme di organizzazione sociale e politica alle quali la borghesia, sui fondamenti dello “Stato na-zionale”, aveva costruito e mantenuto la sua egemonia.
Siamo qui pervenuti, con quest’ultima osservazione, a un punto centrale della mia riflessione così come è indicata nel titolo. Almeno dalla rivoluzione francese in poi, il rapporto (ma anche il conflitto) cittadinanza-potere è stato pensato e svolto all’interno di un sistema di idee (specificamente di cultura politica di fonte “borghese” che enfatizzava le cosiddette “libertà” e la cosiddetta “volontà generale”), che ha costituito la specifica tradizione liberaldemocratica della modernità. Con l’avvento della rivoluzione elettronico-informatica (ovvero, se si vuole, della postmodernità) anche la tradizione liberaldemocratica è stata messa in liquidazione, insieme agli ordinamenti che la sorreggevano (gli Stati nazionali). Ed è in forse, insieme al liberalismo, la proiezione storica delle idee della borghesia nell’elaborazione politico-culturale delle forze poi espresse dalla società di massa ovvero, in primo luogo, dal movimento operaio. E’ in forse, voglio dire, la “democrazia”. E, questo, a dispetto del fatto indubbio che tanto al liberalismo quanto alla democrazia, e alle loro auspicate coniugazioni nella politica e nella società civile, si faccia ancora ricorso, assai ansiosamente, da ogni possibile tribuna pubblica o privata.
Risulta infatti sempre meno convincente l’appello, oltre che alla liberal-democrazia, alla stessa democrazia, in realtà nelle quali i partiti politici (non penso soltanto all’Italia, ma anche alla Francia, alla Gran Bretagna e alla Germania, lasciando a parte, per ora, gli USA) vanno perdendo la loro originaria fisionomia di soggetti collettivi ancorati a stabili aggregazioni sociali ideologicamente motivate, trasformandosi in improvvisati comitati (spesso avvertiti come superflui o dannosi dalla gente) per promuovere o tutelare interessi del tutto “pratici” e contingenti, variabili e contraddittori, fungendo assai spesso da sofisticate macchine propagandistiche o da emittenti di messaggi per consentire l’accesso al potere a individui autopropostisi come “carismatici” (e talvolta così riconosciuti e valorizzati), nonché ad eterogenee ed opportunistiche cordate di ambiziosi.
Con il disfacimento della tradizione liberaldemocratica la gestione del potere volge inevitabilmente al populismo e la “cittadinanza” (ovvero la condizione individuale e sociale del “partecipare” con autonoma e libera capacità di critica e di giudizio alla gestione della cosa pubblica) va perdendo ogni qualità, smarrendo persino il suo proprio concetto in una sorta di cangiante spettacolarizzazione del rapporto potere-società che forma e dissolve, in veloci ritmi di apparizioni e dissolvenze, opinioni pressate ora da impellenti bisogni, ora da caduche emozioni e passioni senza costrutto “ideale”, senza consistenza ideologica, persino senza vocazione al futuro. Con analoghi argomenti ho avuto modo di insistere recentemente sul “degrado della cosiddetta vita democratica (l’Italia ne ha sopportato appie-no i pesi con Berlusconi e continua a sopportarli sulla strada di un berlu-sconismo diventato costume di massa) ridotta ad una specie di spettacolo le cui star sono i singoli notabili aspiranti a ruoli carismatici”; evidenziando la presunzione dei cosiddetti ‘eletti del popolo’ di essere legittimati a eser-citare un potere politico che (per quanto sia invero piuttosto improprio e fantasmagorico) tende ad esercitarsi non tanto nella legge, quanto soprattutto al di sopra della legge, al limite di un vanitoso autoritarismo”. (Nel piccolo, in Sicilia, conosciamo tanti esempi minori appartenenti a una siffatta sceneggiatura!).
In un processo di questa natura − torno ad insistere, perché repetita iuvant – mentre il populismo in varie salse va diventando forma corrente di formazione e gestione del potere politico e vanno perdendo significato le antiche distinzioni tra “destra” e “sinistra” − è anche ben difficile attribuire senso e valore reali alla parola “cittadinanza”. Aggiungo quel che ha rilevato recentemente Luciano Canfora (e l’intuizione implicita nell’affermazione mi sembra francamente insuperabile) “il termine stesso di democrazia è diventato ormai un paradossale stravolgimento del suo ori-ginario valore etimologico”.
Tutto questo accade – mi sembra − per effetto della globalizzazione capitalistica che va riducendo lo stesso potere politico, nelle sue residuali configurazioni in Stati sempre meno “nazionali” e sovrani, ad un ruolo an-cillare rispetto al potere economico-finanziario senza frontiere che è il vero nuovo principe del sistema mondiale in cui si sta svolgendo la rivoluzione elettronico-informatica.
Essendo dotato dei peculiari strumenti interpretativi che mi vengono dal fatto stesso di essere uno studioso siciliano, uno storico militante siciliano, mi è parso, in un’organica riflessione messa a punto in un libro recente che va sollevando non poco interesse (Globalmafia. Manifesto per un’Internazionale antimafia, Milano, Bompiani, 2011), di poter riconoscere a questo nuovo principe la sostanziale natura di un “potere mafioso”. Potrei sbagliarmi, ma dati inconfutabili accertano che circa il 60% del capitale finanziario che domina il mondo viene da un meccanismo di traffici e di transazioni legali-illegali alimentato da “denaro sporco”. E certamente non mi sbaglio nel ritenere che gli interessi corrispondenti a tali traffici e transazioni abbiano bisogno di manager (nonché in sede politica, di politici e politicanti) per i quali la legge è sempre un optional e mai una Legge e la “cittadinanza” di quanti nel loro orizzonte sono chiamati a un ruolo da sudditi è soltanto una concessione da mettersi utilmente nel conto della loro infingarda recitazione liberaldemocratica.
Invero, alla globalizzazione capitalistica si sta avvitando, come l’edera al tronco, la globalizzazione mafiosa. Per questo, avendo posto all’attenzione la “Globalmafia” come profondo fattore di conflitto e di pervertimento dei processi in corso della rivoluzione epocale che stiamo vivendo, ho ritenuto di poter indicare nell’Antimafia la piattaforma per un’unificazione, anch’essa necessariamente “globale”, delle forze (per adesso dotate di passione civile ma non di concorde ed efficace strategia) che aspirano ad una ricostituzione, adeguata ai tempi, dei valori e del senso della “cittadinanza”.
Si tratterà, inevitabilmente, di impegnare ideazione e fatiche ben più in una ricerca in progress che in una reiterazione di convincimenti ed espe-rienze del passato. Con tutta la sua forza distruttiva, la nuova rivoluzione postindustriale sta ancora avanzando senza che sia possibile prevederne gli esiti finali (se esiti finali ci saranno). Sarebbe comunque impossibile, oltre che “reazionario”, tentare di fermarla. Ma è sensato impegnarsi per orientarne gli sviluppi verso nuovi assetti che, nel mondo, ridiano speranza alla possibilità di coniugare progresso, libertà e giustizia sociale (soprattutto la giustizia sociale, che è quell’ineliminabile condizione di autentica “cittadinanza” che adesso manca quasi dovunque o è in pericolo laddove, in passato, si era almeno parzialmente realizzata sotto la spinta dei grandi movimenti di massa) . Credo che sia questo il ruolo delle nuove “avanguardie” civili. Chi è giunto alla mia età non ha altra speranza che vederle finalmente nascere.

NOTE
[1] Un’accelerazione anche nella percezione del tempo, come ha rilevato in un libro edito da pochi giorni (Essere senza tempo, Milano, Bompiani, 2010) il giovane filosofo Diego Fusaro che – devo purtroppo lamentare – non ha avuto l’amabilità (un segno di inavvedutezza filologica che è anche un segno dei tempi!) di segnalare quanto di analogo, molto prima di lui avevo già avuto occasione di mettere in luce nel cit. Eclissi del principe, ecc., pp. 74-83.
[2] Mi è sembrato corretto così interpretare il crollo dell’Urss (edificio storico che, molto al di là della demonizzazione che se ne è fatta, è da vedersi come nodo esemplare di una cultura politica della democrazia occidentale liberatasi dalla tradizione borghese-liberale per quanto appartenente, con la sua pretesa di aver dato vita alla “dittatura del proletariato”, all’orizzonte della rivoluzione industriale: tale crollo si è fondamentalmente verificato per la radicale inadeguatezza del sistema sovietico alle nuove esigenze di organizzazione sociale e ai ritmi della “rivoluzione elettronico-informatica”. Formatasi sotto la spinta della grande operazione leninista di “modernizzazione” dell’ex impero russo, l’Urss non ha retto all’avvento, nel mondo, della fase storica “postmoderna” segnata dai processi di de-industrializzazione.

Testi di riferimento:
Andriani Silvano, L’ascesa della finanza, Roma, Donzelli, 2006
Barber Benjamin, Consumati. Da cittadini a clienti, Torino Einaudi, 2010
Bauman Zygmunt, Consumo dunque sono, Roma-Bari, Laterza, 2010
Chomsky Noam, Sulla nostra pelle, Milano, Tropea, 1999
Fukujama Francis, La fin de l’histoire dix ans après, in Le monde, 17 giugno 1999
Id., La grande distruzione, Milano, Baldini & Castoldi, 1999
Marino Giuseppe Carlo, Eclissi del principe e crisi della storia. Apogeo e tramonto della democrazia rivoluzionaria nel XX secolo, Milano, Angeli, 2000.
Id., Globalmafia. Manifesto per un’Internazionale antimafia, Milano, Bompiani, 2011
Sassen Saskia, Globalization and Its Discontents. Essays on the New Mobility of People and Money, New York, New Press, 1988
Volpi Alessandro, Mappamondo postglobale, Milano, Altreconomie, 2007
Wallerstein Immanuel, L’era della transizione-Le traiettorie del sistema mondiale, Trieste, Asterios, 1997
Id., Dopo il liberalismo, Milano, Jaca Book, 1999
Zolo Danilo, Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Roma-Bari, Laterza, 2004.

Saggio pubblicato su FaceBook il 22 febbraio 2012

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