Federico Li Calzi
Dittologie Congelate
TRA@ART 2012
Edizioni Cerrito
Prefazione di Nuccio Mula
Postfazione di Enrico Testa
Prefazione
Dovevamo saperlo che l’amore
brucia la vita e fa volare il tempo.
Vincenzo Cardarelli
Più che ad un’incongrua benché provocatoria e mordace
forzatura di quell’esprimere per definizioni che, alla figura
retorica della “dittologia” (o “dissologia” che dir si voglia o
si scelga, nella palese giunzione d’etimo di “doppio discorso”
e “doppia espressione”), riserva l’accostamento “in coppia”
di vocaboli dal significato affine o dall’evidenza morfologica
manifesta, onde volutamente amplificarne o più
icasticamente cesellarne l’offerta semantica e la potenzialità
ritmica d’impatto per intuizioni, propositi, termini e forme
fra i segni e nel segno dell’inequivocabilità ( “allegro e felice”,
“E vissi a Roma sotto ‘l buono Augusto, / nel tempo de li
dèi falsi e bugiardi”, Dante, Inf.; celebre pure l’es. in Petrarca,
“Muovesi il vecchierel canuto et bianco”), questa insolita titolazione
nella trinitaria cifra del sorprendere, dell’avvincere e
dell’affabulare (“Dittologie Congelate”) insindacabilmente
prescelta dall’Autore a contrassegno e “scanner” di questa
sua nuova raccolta poetica, m’appare piuttosto rimandabile,
in tutta evidenza di riscontri testuali, ad un “cogitare”, per
discorsi & dintorni, eloquentemente dichiarato, in una delle
più significative liriche del presente volume, a proposito di
“nastri che, paralleli, scorrono e noi ascoltiamo senza ritorno” poiché
“abbiamo il compito di farlo”.
Senza ritorno (“vestigia nulla retrorsum”, nessun passo indie-
tro nelle intenzioni, dichiarate o sottintese, di ognuno dei
due comprimari; e per l’Autore, nel reiterarsi del peregrinare
investigante avviato già con “Poetica Coazione”, soltanto
l’assillo di reperire, in qualche modo, chiarimenti giammai
sentiti od esternati al replicare d’ascolto dell’altro “nastro
parallelo” che continua, anche in questo libro, a riprodurre
silenzi); e senza sintonie neanche meccanicamente “fisiche”
d’un percepire propedeutico all’udire e al “sentire” in ogni
momento di questo “scorrere parallelo” che, in evidente
analogia con il famoso postulato di Euclide (e con tutte le
sue successive confutazioni e “querelles”) circa quelle “rette
parallele” destinate (o forse no) ad incontrarsi solo “all’infinito”,
anche nella presente mutazione in “nastri paralleli”
dovrebbe trovare (o forse no) un ipotetico punto d’incontro
soltanto “all’infinito”, per quanto, in quest’ultimo caso, lo
scorrere dei due nastri paralleli non presupponga e consenta,
diversamente dal caso delle “rette parallele”, dinamismi
di già intraprese percorrenze comuni (ovvero, esemplificando,
anche parzialmente schematizzabili in geometrismi che
confermino, senza eccezioni e senza dubbio alcuno, grazie
all’immediatezza del riporto grafico, tensioni direzionali
comunque “fisicamente” condivise sullo stesso piano), dal
momento che i predetti nastri proseguono a scorrere “ad
libitum”, ma senza un inizio e senza una fine, senza una
qualsivoglia pulsione verso un qualsiasi “infinito” su cui poter
individuare un qualunque materiale o ideale “punto d’incontro”:
ed è proprio per tale inopinato “congiungimento
disgiunto” di potenziali dinamismi comuni ridotti a forzate,
comuni staticità, che le “dittologie” di cui sopra vanno a
spiegare il perché di questo loro essere “congelate”.
“Dittologie Congelate”, allora; e di certo in rapporto fisiologico,
“naturaliter”, per analogia d’intenzioni ed ostensioni,
con il precedente florilegio del quale va a riproporre an-
che quell’olezzo dolciastro ed acre di fiori decomposti che
prosegue ad intriderne gli scenari e le quinte, quantunque,
nell’odierna proposta editoriale, l’architettura scenografica
/ scenotecnica chiamata ad interfacciarsi con questi nuovi
ma già noti parallelismi d’inconciliabilità sia tutt’altro che
una replica “tout court” del precedente macchinare per esiti
di ambienti; laddove, anzitutto, la predominanza oggettiva
d’un “esterno notte” in totale affinità con la preponderanza
del rievocare testuale (sintonia di atmosfere che, tra l’altro,
in “Poetica Coazione”, immediatamente mi convinse del
suo manifestarsi, ed in tutta evidenza, “hopperiana”, tant’è
che anche la copertina intese rinsaldarlo) cede il passo (e il
senso, il cogitare, l’umore, le cromie, i toni e quant’altro
ancora nella ripartenza del rievocare) ad una sorta d’immenso
“interno giorno” aureolato, tuttavia, non da nitidezze
di fulgori ma da luminescenze di “aurora boreale” in cui
soltanto linee d’ombra conradiane ed ombre lunghe come
dilatazioni fisiche dell’ “excurrere” adesso divengono regolatore
isotermico e “container” per il già “congelato” ed il
“congelabile”.
Ibernazioni di sopravvivenze, però, e non assiderazioni
“strictu sensu” a scongiurare ogni temporale iattura di deperibilità
d’un “già estinto” non ancora scollegabile da residue
quanto inutili venerazioni di reliquiari, laddove, in Li Calzi,
la splendida, esoterica tesi di Federico von Hardenberg, più
noto come Novalis (“Ogni parola è parola di evocazione”) prosegue
ad interagire con estremi ma infruttuosi tentativi del rianimare
su questo “ibernato” tutt’oggi pregno di pulsioni e
di flussi ancorché in attenuazione d’ipotermia conservativa,
in una residuale ma caparbia consapevolezza dell’oggettivo
relativismo di qualsivoglia prematuro arrendersi all’evidenza
di un’incomunicabilità sperimentata, conclamata, testimoniata
ma non ancora indomabile ed invincibile; e ciò so-
prattutto se, in subordine ad ogni ormai effimera voluttà di
vittoria dell’Autore, a lui fosse concessa semplicemente una
“ultima chance”, un chiarirsi estremo, definitivo, irripetibile,
liberatorio, a permettergli, alfine, d’esorcizzare ed estinguere
un passato sul quale, anche poeticamente parlando (e con la
certezza d’una piena condivisione da parte dell’Autore) si
possa sentenziare, già ora, il “tertium non datur”.
Anche in questo suo riproporsi lirico, Federico Li Calzi continua
ad impressionarci e a coinvolgerci nel suo detonante,
impietoso, flagellato monitorare, anteponendo un secco
preliminare d’intesa che, al tempo, diviene inequivocabile
dichiarare d’intenti, e che ritengo qui riportabile “in toto”
non con le sue parole ma tramite l’impressionante analogia
d’un riscontro, datato qualche anno fa, ed a firma del geniale
scrittore surrealista Claude Courtot:
“Io porto soltanto messaggi di dislocazione e frammenti disparati
di comunicazione spezzettate. E tuttavia la situazione in cui mi
trovo, qui davanti a voi, mi sembra così poco reale che provo il
bisogno di prolungarla più di qualunque testo. E’ questa situazione
stessa che regge ai miei occhi tutto il peso poetico di questo
incontro. (…). Chi ero quando pensavo di venirvi a incontrare?
Formulata al passato, la domanda non è più semplice, è illusoria
come la storia. Spesso vedo persone e cose dietro una nebbia,
provo una specie di vertigine che non è prodotta dalla paura del
vuoto, ma dalla tentazione del tempo. Io cammino sul margine
del tempo che mi attrae come uno specchio. E vi vedo, voi e una
persona che vi parla, che mi assomiglia al punto che crederei
volentieri che fossi io tutt’intero se, contemporaneamente, non provassi
la sensazione che io esisto anche fuori dello specchio, in una
sorta di al di qua provvisorio”.
Lo specchio, appunto; lo stesso specchio più volte presente
in questo rinnovato e sofferto “cogitare lirico”. “Se cerchiamo
di osservare lo specchio in sé, alla fine non troviamo che le cose su di
esso; se vogliamo afferrare le cose, non troviamo altro che lo specchio”,
scrisse Friedrich Nietzsche; ed è proprio qui che va a depositarsi
il “trameare”, il “transmeare”, il “passare al di là”
utilizzando un tramite, una via traversa per la quale si voglia
percorrere più presto e non veduti, o una scorciatoia, un
sentiero, un viottolo che scorra attraverso alla via maestra;
e anche lo stesso concetto di trama, identificata non quale
complesso dei fili dell’ordito rialzati dai licci per lasciar passare
la spola, ma come filo stesso di cui si riempie l’ordito,
quello “specchio” che ha la stessa identità etimologica di
“spicio”, di “guardare”, verbo che, a sua volta, ci riporta
anche al tedesco “ward” ed all’antico sassone “waron”, cioé
a due termini che vogliono significare, simultaneamente, gli
atti dell’osservare e del vigilare (un solo esempio: “guardarsi”
da qualcuno o da qualcosa; e “ward” contiene anche i
germogli di termini quali “guardiano” e “vallo”, cioè trincea
difensiva: il che ci aggancia, indirettamente, anche al significato
configurativo di “occhio”, laddove, a specificarlo, si va
ad identificare non solo la sua potenzialità fisica di visione,
ma anche il suo detonante intellettuale di “ago” che penetra
nel reale e nell’immaginario con tutta la sua apparente onnipotenza
e / o l’effettiva possanza di monitoraggio).
“Se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia
a un uomo che osserva il proprio volto su uno specchio:
appena s’è osservato, se ne va, e subito dimentica com’era”
(Atti degli Apostoli, Giacomo, I, 23-24);
ed anche in queste nuove pagine di tormento, lo specchio,
nel riflettere l’esterno e l’esteriore, invita, “apertis verbis” od
in via indiretta, un volto, e solo “quel” volto, al “reflectere
animum”: ma di nuovo invano.
Ed ancora, ugualmente richiamato a reiterare il suo fisico
denotarsi e le scaturigini delle sue connotazioni di patimento
ad abbarbicarsi sulle infinite piattaforme fenomenologiche
dell’incomunicare, ritorna il Silenzio, più volte ritrascinato
sullo scenario poetico per l’intrecciarsi di trame a
replicare solo il primo atto, il più drammatico, il più sconcertante
e irritante, della sua Tetralogia (silenzio letterale,
allegorico, morale, divino), nella misura in cui all’impetrante
“silenzio d’ascolto” costantemente scansionato dall’Autore
come ulteriore sollecitazione asemantica, “non verbale” ma,
in uno, eloquentissima, di risposte da sempre e sempre eluse
tramite strategie di respingimento (e forse pure d’anomala,
controproducente autodifesa in chiusura a riccio) va a contrapporsi,
di fatto ed ai fatti, un “silenzio d’indifferenza”
che stoppa, respinge, ignora, isola, si isola, diventando, paradossalmente,
anche a suo modo “loquace”, ergo abilitato
a lottare ad armi pari con la Parola, contrapponendo al “noi
siamo quel che diciamo” un “noi siamo quel che non diciamo”
rivelatosi qui vincente (mi sovviene, per congruità
di riporto ed astenendomi da un parteggiare, il Montale di
“Ossi di seppia”: “Voi, parole, tradite invano il morso / secreto, il
vento che nel cuore soffia. / La più vera ragione è di chi tace”).
Ma è, piuttosto, nel grande Puskin (“La parola d’un poeta è
essenza del suo essere”) ed in Alfred de Vigny (“la poesia è una
malattia cerebrale”, intesa come incombenza epifanica della
“krisis”, del “dubito, ergo sum” kierkegaardiano, come ulteriore
rimando allo specchio come “speculum memor” dell’Io,
del “non-Io” e delle loro “quiddità”, ovverosia non solo del
mondo e delle sue “coseità” evidenti o apparenti, cristalline
o mendaci) che va a nuovamente a dimensionarsi e perimetrarsi
il macrocosmo / microcosmo espressivo di Federico
Li Calzi, il quale, memore della geniale considerazione di
Goethe (“Gli autori più originali non lo sono perché promuovono
ciò che è nuovo, ma perché mettono ciò che hanno da dire in un modo
tale che sembri non sia mai stato detto prima”) e dell’illuminante
presupposto di Claudio Magris (“Scrivere è trascrivere… Uno
scrittore trascrive storie e cose di cui la vita lo ha reso partecipe: senza
certi volti, certi eventi grandi o minimi, certi personaggi, certe luci, certe
ombre, certi paesaggi, certi momenti di felicità e disperazione, tante
pagine non sarebbero nate”), insiste, nella sua particolarissima
vigoria d’impatto creativo e stilistico (qui mi balena lo sciabolante
cogitare di Gertrude Stein: “Uno scrittore deve avere
uno stile. Oggi è la cosa principale. Bisogna distruggere tutti i vecchi
modi di sentire le cose, di vederle, di dirle”), ad inanellare le sue
“parole / parabole” in questa loro multivalenza “gravida”
e non “sterile”, frutto di un uomo “parlante” e giammai
“parlato” (ergo imprigionato nella galleria del vento, senza
uscite, della “parola / non parola”, mentre è pur vero, e
l’immortale Rainer Maria Rilke aveva ragione da vendere,
che “si scrive perché la vita non basta”), parole di concretezza
e di solidissimo spessore propositivo (“La parola è l’ombra
dell’azione”, annotò Democrito, citato da Diogene Laerzio
nelle sue “Vite dei filosofi”: e non dovremmo mai e poi mai
dimenticare, in tal senso, che “Pòiesis” ed Arte condividono
“ab origine” l’etimologia di “azione”, e giammai di segno o
suono finalizzato ad estetica fine a se stessa o, peggio, ad
insulse, deleterie vuotaggini, dal momento che anche Victor
Hugo ebbe splendidamente a sentenziare: “La parola è un
essere vivente”).
A sfogliare attentamente le pagine di questa secondo ed altrettanto
prezioso florilegio lirico, di queste parole pregne,
pulsanti, energiche, alte, mai ginocchiate a capitolazioni di
sorta, significanti e significative nell’appello e nell’autorichiamo
ad un agire sempre, dovunque e comunque, ne
constateremo grande quantità, dall’inizio alla fine, senza soste
di demotivazione o, peggio, incongrue pause di ripensa
mento; e tutte in grappoli concettuali ed emotivi saldi, cioè
giammai impalpabili, polverizzati da iperintimismi di lacrimevoli,
penose trascolorazioni.
Vi troveremo, allora, ricordi come linfa e veleno; solitudini
non come dannazioni divine ma scaturigini esistenziali;
camere di compensazioni a distillare e calibrare inesauste,
infinite, imprevedibili categorie di mendacio; teorie di atmosfere
rarefatte per simbolismi di rimembranze in una
sorta di “surplace” dello scansionare rievocativo attraverso
sceneggiature ed inquadrature di spazio / tempo per affabulanti
“piani-sequenza” solo in apparenza squassati da un
sussultare di estasi e angosce in simultanei dinamismi ma, in
realtà, pronti a sedimentare ed a stabilizzarsi in totemizzanti/
totemizzate staticità dalle connotazioni formali eminentemente
metafisiche; longitudini e latitudini d’un pervicace,
mai rassegnato monitorare / investigare su ormai residuali
reperti di labirinti tramutati dal vivere riciclante in cretti a
ricoprirne / occultarne dedali, vie di fuga e vicoli ciechi; incessanti
ricerche nel segno e nel tormento dell’ “ex-cavare”
per inebriare di luce scenari nascosti da stratigrafie di detriti
e di polvere in fibrillazioni di moti sussultori, nella vana speranza
d’un “resurrexit”.
E poi l’animo e l’anima (che sono cose ben diverse, intendiamoci:
ed il critico lascia volentieri al lettore il compito di
approfondirne i due concetti); nonché le trame e il dedalo
lucente e oscuro, popolato da visioni del ricordare (“riandare
col cuore”), del rimpiangere (facendo risuonare tra le
gallerie di specchi dell’Io / non Io il percuotere lacrimato di
ciò che, irrimediabilmente perso, riaffiora e s’abbraccia invano,
come dileguantesi ombra nell’Ade), della Memoria (che
s’appalesa nell’etimo e nell’identità reale e terminologica di
“mater”; e che, al pari di madre, viene invocata quale archetipo
antropologico, referente familiare, “Genius loci” tra i
luoghi arcani d’ogni labirinto, onnipresenza d’invocazione e
d’aiuto contro tutte le improvvise incursioni di minotaurismi
persecutori), della malinconia (ovvero della costruzione
d’un microcosmo virtuale edificato al pari di Epifania del
Disilludere tra camminamenti di desideri insoddisfatti o traditi):
tutte ectoplasmie entro cui audacemente autoguidarsi,
come accade, ribadisco, anche per questa rilevante opera, in
un lungo brivido d’inabissamento compensato, comunque
e soltanto, dalla (magra) consolazione del possesso di un
“filo d’Arianna” che diviene, al tempo, segnale e “fil rouge”
per l’Io / non Io e per chiunque, come accadrà ai lettori,
sia chiamato a condividere tragitti lastricati di chiodi e di
fiori, scalate d’ascensione e di “àskesis”, percorsi lustrali, altipiani
su cui sostare in attesa di altri percorsi di sofferenza,
di espiazione, di catarsi; e poi, ancora, un peregrinare contestuale
sui sentieri e le cartografie linguistiche di Martin
Heidegger, nella misura in cui, oltre a specifici accostamenti
per fotogrammi dannunziani d’acqua mortifera e vitale
al tempo, e però in un comune fluidificare di rigenerazioni
vivificanti,“la parola incide realtà stagnanti e ne sprigiona metarealtà,
componibili in un universo senza tempo, attraversato da iterazioni
centrifughe all’infinito”.
Ed incide, sì, la parola. Poiché una delle principali radici di
“scrivere” è proprio “incidere” – in attinenza alla storia della
parola che nasce dalla preistoria dei graffiti e da una prima
fase evolutiva dello scalfire alfabeticamente le tavole di pietra
o, successivamente, le superfici incerate – e lo “scrivere
/ incidere” possiede, nel suo connaturarsi, anche l’etimo del
verbo “scavare” (a sua volta, ancora, genitore di un’azione
simultanea: il già citato “ex–cavare”, ergo l’estrarre, il portare
alla luce lavorando sul buio dell’opera di scavo medesima:
paradosso magnifico e inquietante che il linguaggio
– ivi compreso quello, multiforme e polivalente, alfabetico
/ sequenziale o configurativo di ogni espressione dell’arte
– opera su se stesso, essendo in grado autonomamente di
superare qualsiasi ostacolo, compreso il rischio della paradossalità).
Scrittura che incide, scava ed estrae, allora, per sua inalienabile
natura; scrittura che, però, può incidere e scavare anche
senza dover necessariamente estrarre qualcosa da “mettere
in comune” (questo l’etimo di “comunicare”) ovvero cui
“dare o restituire forma” (quest’altro, invece, l’etimo di “informare”)
al fine di consegnarlo ad una superficie che non
necessariamente potrebbe essere sinonimo di quietudine e
di solarità, vista e considerata l’inquietante serie di luminescenze
fredde o accecanti che, come già detto, vi coabitano.
Ma non finisce qui, visto che a coabitare in queste pagine
vi sono anche le dimensioni fallaci e mendaci del sogno,
a travisare le coordinate delle notti e gli orizzonti dei giorni
nell’incessante replicare di passi a ritroso, ad istoriare (in
“viae crucis” della Disillusione) sentimenti ed eventi che
l’Autore torna a cucire a carne viva su ogni stazione, con gli
aghi e i fili di rimpalli verbali, di vaticini erranti, di interrogatori
a una sola voce che appare molto più corretto definire
“monodialoghi”, cioè testi che si presentano come “monologhi”
ma possono anche essere letti in dialogo e “dialoghi”
che potrebbero facilmente essere ridotti a monologhi, visto
che, in ogni contesto, ciascuno monologa dialogando col
mondo e dialoga per concludere il suo monologo.
Questo, in sintesi opportuna, il rimando al grandissimo
Otto Zwerge, che ci permette d’entrare “in medias res”, decriptando,
anzitutto, la volontarietà di scelta di un termine
(“monodialoghi”, appunto) del tutto diverso ed autonomo
da quello (più prevedibile ma, anche nella specifica circostanza
editoriale, “in toto” inadatto, fuorviante ed alieno)
di “monologhi”: laddove, appunto, il “monologo” ha sino-
nimia di “soliloquio”, cioé d’un parlare a sé medesimo ed
a sé soltanto, mentre l’evolversi continuo della scrittura e
degli strumenti di comunicazione ce ne ha rivelato l’oggettiva
inadeguatezza in termini d’espressione e di trasmissione,
a partire da quel genio indimenticabile ed inarrivabile di
Giorgio Manganelli (che coniò ed usò diversissime volte il
neologismo) sino alle sperimentazioni letterarie e sceniche
d’avanguardia (specie nell’area geo-cogitante dell’America
latina, per non parlare dello specifico “theatrum psychotechnicum”
come “arte della mente”, “espressione poetica
della persona”, atto primitivo e magico che danza tra le ombre
del mondo seconditivo, viaggio appassionante nell’espressione
e nella performance in termini di psicotecnica,
ovvero della psicologia applicata al teatro e come teatro, per
diventare ciò che si è attraverso l’azione) ed alle più recenti
trasmutazioni in chiave di “webscrittura” e di “hypertrame”
nell’etere infinito della Rete che hanno conferito definitiva
ufficialità a tale identificazione, veicolandola nel linguaggio
comune.
E sono “monodialoghi”, appunto, quelli in cui le precise
parole di Li Calzi appaiono, via via, iconografie di “ex voto”
deprivati d’ogni potenza conclamata od arcana, esplicitata o
sottesa; voci nascoste, illusori duetti dissociati e dissonanti,
così nel reale dell’ieri come nel rievocare dell’oggi, segni di
suoni, di alfabeti, di corpi, di odori, di colori, di calori, di
freddezze, di orme, di armi, di duelli, di sfide incompiute
da reiterare; cerchi magici che non proteggono ma sorreggono
infingimenti; “parole taciute di tristi pensieri”; persiane
socchiuse per sortilegi d’ombre maligne come le porte dal
semiaprirsi angosciante nelle notti di “Poetica Coazione”;
temporalità che scandiscono e scannerizzano amarezze su
corde straziate e strazianti al tempo; mutazioni esistenziali
nella chiave di un Dubbio che s’appalesa strumento di una
truce “non-casualità”; reiterazioni di “flash-back” sulla ragazza
che vive cerimoniali d’allontanamento fra la spiaggia
e gli scogli; sadismi della sorte in riproposizione lacerante;
ancora notti liquide che svaniscono tra le mani e sugli occhi
con le loro risultanze di paure, attraverso sequenze impazzite,
prima lentissime, poi non più percettibili, né dagli occhi
della mente né da quelli del cuore o dall’illuminato “terzo
occhio” della visione deuteroscopica; gorghi di frasi, di moti
corporei, di suoni senza suono, tra sguardi senza sguardo;
ambigue compresenze di cose con la loro anima muta, sugli
stessi palcoscenici e dietro le stesse quinte, a condividere
silenti ambiguità; sinergie frantumate da “languidi misfatti”;
solitudini di cori a bocca chiusa ad attendere partiture di
“perché”; attese sul “nostro luogo” ad aspettare ed aspettarsi
tutto e niente; ricordi come catene roventi d’estate; spettri
di evocazioni millantatrici; piogge che univano; viali per
comuni percorsi, anche se, ormai, “E’ tutto reso e domandato
/ sulla scia della memoria. / E’ tutto visto e condannato / sulla
via della parola”, quindi “tutto è compiuto”, ancorché vanamente
richiamato a risorgere fra giorni di miele e di fiele,
notti di sogni e di incubi, allucinanti “albe di abusi”; schegge
del contemplare tra cormorani e fabbriche, per spezzare
o riunire abilmente il filo del riproporre; ed infine, ancora
fortunali di parole “gravide”, aureolate d’epitaffio, ultime,
ultimative, ineludibili, fatalmente destinate soprattutto “a noi
che non abbiamo / altra felicità che di parole” (Camillo Sbarbaro):
“Le parole scritte / come la notte che viene / sono le più vere / che
ho stretto stavolta / nell’arsura dei fatti. / Le parole dette / come gli
occhi che lasci / sono lenti misfatti”.
E concludiamo con lo stile, che, in questa seconda opera,
superate le necessità d’esporre analiticamente, per descrizioni,
complesse e complete, di fatti, misfatti & antefatti,
diviene più carico d’immediatezze e di sintesi oltremodo
congrue all’apparato strutturale dei testi, nella maggior
parte dei casi secchi, duri, rapidi, per fulminanti / fulminee
rese dei conti nell’ “ultimatum” di chiarimenti definitivi e
giammai più replicabili a beneficio d’una “partner” riottosa
cui l’Autore non intende dare nessun’altra possibilità, ed
anche a vantaggio dei lettori i quali, in questa mutazione del
riferire creativo, riescono ad ottenere altra ed alta comprova
d’una duttilità linguistica che riesce a distillare fluidità anche
da questo suo rinnovato proporsi per conduzione da vero
“rallysta” del versificare, cioè da “driver” perfettamente in
grado d’adeguare stile e condotta di guida sia nell’affrontare
i tornanti scoscesi ed impervi del suo primo perlustrare “a
ritroso”, sia nel percorrere i sentieri sterrati ed altrettanto
imprevedibili di questa sua nuova, finale, ricognizione interiore
su luoghi, eventi e sentimenti che, in quest’ultimo
approfondire per esplicazioni, ci riporta alla straordinaria,
geniale acutezza di Umberto Galimberti, fra i più rinomati
filosofi dell’oggi, che splendidamente afferma:
“Nella corsa all’indietro, il linguaggio non ‘dice’, ma ‘ritorna’
dal detto a ciò che non è detto, eppure dal detto è richiamato.
Il ritorno allude a un fondo inesplorato. Luogo e non-luogo del
discorso, esso inaugura quel nuovo modo di ‘pensare’ che è un
‘passare’ da un evento all’evento che lo precede, fino a giungere a
quell’origine dove è custodito il segreto che, svelato, ci dice che quegli
eventi e non altri ci dovevano ospitare. E allora ci sarà dato di
scoprire che la nostra vita non era una casualità, ma uno stile che
imponeva a ogni evento il suo sigillo. Il passato infatti non è mai
veramente passato. Ed è questa la ragione per cui, se vogliamo
capire davvero qualcosa del futuro che ci attende, è al passato che
dobbiamo guardare, dove è scritto il nostro modo di offrirci alla
vita, di accostarci agli amori, di fiancheggiare i dolori. Il ritorno
non è un’interpretazione della propria vita come è nella pretesa
psicoanalitica, ma la scoperta della propria radice interiore, dove
è dato di conoscere la propria immagine, a partire dalla quale è
possibile rendersi conto che, ogni volta che lo interpretiamo, non
facciamo che raccontare la nostra storia. Camminare all’indietro
verso quel luogo in cui è custodita la nostra radice interiore non
significa arrivare a una meta, ma tenersi in cammino, perché il
luogo è nascosto e la sua dimora é abissale. Come la quiete non
distrugge se stessa nel clamore delle parole, come il silenzio non
si concede all’esplicitazione totale, così la nostra radice non si
svela mai totalmente perché si sottrae a ogni interpretazione che
pretenda di esaurirla. Proprio per questo concedersi sottraendosi,
noi abbiamo futuro (…). Si tratta, pertanto, di tornare dalla
parola espressa dalla ragione, che è il cadavere della parola psichica,
a quel fondo che la parola razionale occulta e muove per
il terrore che essa possiede per tutto ciò che non rientra nel suo
ordinamento”.
Federico Li Calzi, in tempi ragionevolmente brevi, ritornerà
in ambito editoriale, ma stavolta per misurarsi con tutt’altro
linguaggio letterario, quello della narrativa, che da lui esigerà
nuovi e considerevoli raccolti, sicuramente già da adesso
“testati” con quella sua caparbia meticolosità che, già dal
nostro primo incontro, gli conosciamo e gli riconosciamo.
Al futuro gli esiti e le comprove: per adesso, e non solo per
gioco, facciamo finta che, oltre chi scrive ora, sia proprio
Federico a salutarvi, e con un dire di Italo Calvino subito da
noi sentito anche suo:
“Questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e
pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di
macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari,
a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi,
ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi
con contorni di foglie o di nuvole, e poi s’intoppa e poi ripiglia
ad attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo
grappolo insensato di parole idee e sogni ed è finito”.
Nuccio Mula
docente universitario, scrittore, poeta, giornalista
componente dell’International “P.E.N.” Club
e dell’Associazione Internazionale Critici Letterari
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Tre poesie tratte da "Dittologie congelate"
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Tre poesie tratte da "Dittologie congelate"
I
Il tuo sguardo mi cattura,
la fortuna degli eventi
è già natura sulla pelle tua.
La sostanza si fa dura
nella stanza della luna.
Il tuo sguardo è calura,
il tuo passo già progresso,
verso me,
cattura il mio sospetto.
Ancora adesso
che è tutto perso, ti penso.
Adesso, che è finito tutto,
ricordo della notte insieme,
di quei giorni quando
mi regalavi quelle ore,
e tutto questo già bastava,
adesso.
Adesso, che non ha più senso
ripetere quant’è successo,
il gesto che ci portò a questo.
Coglierlo, adesso, dalla tua stanza
il melo, guardare di notte la luna
dalla tua finestra.
Ricordare la sostanza
che imprimevi nei discorsi
che lenti bastavano a se stessi.
Adesso, che è finito tutto,
mi pare chiaro
aver capito il tuo sguardo:
un progresso verso me
sentire già il tuo passo.
XXIII
Dalle persiane, un tenue lucore soffuso abbrividisce
la stanza nell’alba. Il respiro dell’uomo è profondo,
disteso sul letto: a guardarlo si direbbe che attenda
un risveglio, che attenda, magari, quel fremito lieve
che scuote le mani a quell’ora puntuale. Basterebbero
ora due languide occhiaie e quel corpo indurito
per capire che l’uomo ha vissuto di duro lavoro.
Distesa sul fianco, la donna, nel sonno gli grava il costato;
assopita, col capo, non pensa alle notti lontane
con l’uomo nel letto, quando insieme han fatto
dei figli. L’uomo e la donna, ora supini nel letto,
han creato altre vite, da rendere al mondo ogni giorno
col duro lavoro. Non sapevano, allora, i giovani corpi,
il frutto dei loro contatti, il senso dei corpi distesi
al mattino nel letto.
I figli hanno tutti lo sguardo del padre e la voce dell’uomo
che una volta parlava, sommessa, alla giovane donna.
L’alba è tenue nella stanza assonnata, un lieve profumo
abbrividisce le narici dell’uomo palpitanti al respiro
profondo che, insieme, congiunge l’addome, disteso,
della dolce compagna. L’uomo è ora bocconi sul letto,
attende un risveglio.
XXIV
Datemi del tempo che sia concorde con le mani,
con le promesse fatte, affinché fugga alle richieste
dei tuoi mali. Ad orecchio ricordo la tua voce,
gli incroci di sguardi, quando, attraverso il vetro,
ti guardavo dalla strada.
Riflessa allo specchio, ti vedo già perplessa.
Anche questo stupirsi fa parte di quel limite
che ci unisce. Riflessa ti vedo, affinché tu possa
redimere il pensiero; affinché ogni istante
lo fecondi il tempo, per moltiplicarlo e poi rivivere.
Datemi del tempo che sia concorde alle richieste
dei tuoi mali, che affondano radici nel domani
di noi, che avvelenano i pensieri. Ad orecchio
ricordo il ritmo della tua voce, gli sguardi gli incroci
dei tuoi momenti.
Datemi del tempo, affinché il tempo sia stremato
dall’evento, che lento si contorca sotto i nostri
occhi, per stringerlo fra le mani, per dire
che è il domani ciò che conta e non il presente,
avvelenato dalle tue promesse, vuote e lente,
come radici che avvelenano la mente.
Il tempo ancora sarà lento, immenso aprirà
il suo abisso sconfinato. Il tempo basterà a se stesso,
non includerà altro, fuori dal suo abile processo.
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