Discorso d'inaugurazione della mostra del 19 dicembre 2011
Canicattì conosce già da tempo Domenico Turco per le sue opere di grandissimo pregio poetico e letterario, ma non conosce ancora l'altro fratello artista, Lillo, che stasera si presenta per la prima volta alla città con una mostra di grafica. Un'arte, quella di Lillo Turco, che per la pregnanza di miti e simboli che la percorrono risulta strettamente connessa ai temi della poesia di Domenico.
Si direbbe che le opere dei due fratelli, pur nelle loro diversificate peculiarità espressive, nascano da un comune sentire; ed è un sentire che ci porta al grande poeta inglese William Blake, caro a entrambi, il quale seppe coniugare poesia e pittura illustrando i suoi poemi con miniature e incisioni di stupefacente bellezza. Davanti alla produzione poetica e figurativa dei due giovani artisti canicattinesi, viene da pensare che l'anima del poeta inglese, si sia scissa in due nella loro ispirazione. Entrando nel merito dei disegni di Lillo, tutti eseguiti con semplici penne biro, e perciò di grafica si tratta e non di pittura (la grafica è segno, la pittura è materia), vorrei partire dalla etichetta di "surrealista metafisico", non perché la condivida e neanche per entrare in polemica con Domenico, che l'ha coniata e gliela l'ha applicata, ma perché mi consente di definire meglio lo stile e i contenuti delle opere qui esposte. L'arte di Lillo Turco è surrealista solo se vista da lontano.
La scuola surrealista teorizzò, e in questo si risolse, l'inconsueto attraverso l'accostamento di immagini e oggetti al di fuori dei tracciati della razionalità o dell'abitudine. Dalì, pittore surrealista per antonomasia, attraverso tale tecnica, sospesa tra la scoperta dell'inconscio e i manifesti del surrealismo, tra Freud e Breton, nient'altro si propone che stupire, scandalizzare, sorprendere l'interlocutore; uno scopo, questo che non rientra nei propositi di Lillo Turco, le cui opere traboccano di simboli e di allusioni al mito così carichi di senso che non possiamo fare a meno, al loro cospetto, di formulare interrogativi e azzardare risposte. In breve, sono disegni che rimandano a culture, decodificano miti, tessono un discorso, instaurano un dialogo, palpitano di una loro coerenza interna, tutti elementi che li discostano esemplarmente dal dettato surrealista strictu sensu e ne fanno piuttosto un'arte simbolista venata di indizi esoterici.
Prendo a mo' di esempio "Varco tra i mondi". E' un quadro di notevole potenza discorsiva. Abbiamo quattro figure in primo piano, viste di spalla, in una atmosfera luttuosa di fronte a quella che davanti a loro è la porta, ovvero il varco che divide l'aldiquà e l'aldilà. Cos'è la morte se non un varco tra dimensioni contigue ma diverse sul piano metafisico? E noi viviamo questo trapassare con l'angoscia dell'ignoto e il dolore del distacco, perché nulla sappiamo del luogo in cui c'immette il passo fatale. Notiamo che il "varco tra i mondi" a sua volta è delimitato da una cornice di fuoco, e il simbolismo del fuoco trova molteplici espressioni nei miti d'Oriente e d'Occidente; il fuoco è l'Agni della tradizione Indù, che concepisce la danza di Shiva, dio della distruzione e della creazione, all'interno di un cerchio di fiamme; ma è anche lo Spirito Santo della Pentecoste nella liturgia cattolica.
Questa ricchezza simbolica ne fa uno degli elementi più ricorrenti in Domenico Turco, "Incendiatevi, vite, il tempo è distruzione" recita una sua poesia de I limiti e l'immenso. Ma c'è ancora di più. L'artista ha sospeso una maschera alla destra del varco, e la maschera rappresenta l'aspetto visibile che l'essere assume quando sceglie di esprimersi nel tempo. Noi, con la nostra identità, col nostro karma, non siamo che maschere (possiamo dire anche pirandellianamente, visto che siamo nella terra di Pirandello) votate, volontariamente o involontariamente, a dare forma all'essere nel divenire. Questa sostanza temporale che noi chiamiamo "maschera" accompagna la nostra presenza nel suo tragitto verso gli estremi orizzonti del visibile, verso il varco tra mondi. Ma la porta occupata da due figure, maschio e femmina, nell'atto di oltrepassarne la soglia, nel contesto di una mostra che Lillo ha voluto chiamare "Sequenze oniriche", rievoca anche l'immagine virgiliana del libro sesto dell'Eneide dove il poeta latino parla di due porte del sonno, la porta di corno e la porta d'avorio, la prima dei sogni veri, la seconda di quelli falsi.
Per quanto riguarda poi il "metafisico", un'altra definizione data da Domenico a Lillo richiamandosi a De Chirico, vorrei dire che Lillo è sì "metafisico", però nell'accezione più filosofica che pittorica del termine. In pittura il concetto non coincide con quello che noi intendiamo per metafisica in filosofia. Storicamente e ufficialmente è stato Giorgio De Chirico a dare questo nome ad un certo suo modo di dipingere, però come succede con tante correnti anche letterarie – vedi il Romanticismo, che storicamente si appartiene all'Ottocento, ma ciò non toglie che sue manifestazioni non si possano trovare anche nella letteratura precedente - anche per la pittura metafisica si può dire che essa non viene alla luce per la prima volta con De Chirico. La pittura metafisica, che intende coniugare atto e stasi, estasi e quotidianità, è lezione che già si trova nell'arte italiana del Trecento e del Quattrocento, nei cosiddetti "primitivi italiani". Metafisici sono Giotto e Paolo Uccello, metafisico è Simone Martini nel famoso Guidoriccio da Fogliano all'assedio di Montemassi, metafisico è Beato Angelico le cui figure sembrano riflettere l'immobilità e il movimento che Dio assembla nella sua ineffabile essenza di "motore immobile". Questa è la pittura metafisica. E Lillo è artista metafisico nello stesso senso e alla stessa maniera in cui Domenico lo è da poeta quando scrive"…cerco oltre i limiti/ del mondo un mondo più totale,/ un orizzonte più splendente…/ Intanto vagano, vagano i mondi!" Assumendo questi versi a canone ermeneutico, le opere di Lillo Turco ci appaiono come rappresentazioni di soggetti e di concetti che fungono da veicolo e da stimolo per farci sentire la realtà di altre dimensioni.
Anche Le trasformazioni di Circe è un disegno che si guadagna l'attenzione per la sua discorsività mitica e simbolica. Vi troviamo l'aspetto demoniaco, negativo dell'anima femminile. Tra le tante proiezioni della donna create dall'Occidente ne spiccano due: quella di Circe e quella di Beatrice, figure antitetiche e totali, uscite dai contenuti archetipici dell'uomo, che, in maniera del tutto autoreferenziale, vede nella donna un mezzo per conoscere le proprie paure o per coltivare i propri sogni. Allora la donna è colei che lo può innalzare al piano angelico, ma può anche degradarlo a una condizione subumana e animalesca. Dando forma e figura a questo mito, l'artista, accanto ai volti-variazioni di Circe ha posto dei teschi e delle carte da gioco, proprio a suggerire l'idea del vizio e della perdizione.
Un altro filone è quello del paesaggio. I paesaggi di Lillo Turco non sono di maniera. Egli riesce a dare plasticità allo stupore, a quell'arresto improvviso della funzione percettiva della coscienza, nel momento in cui si focalizza su un oggetto o su un'atmosfera che ha l'attributo dello straordinario rispetto all'abituale. Lillo Turco, con geniale intuizione, ha chiamato un suo paesaggio Splendore e stasi. In realtà è un titolo che può estendersi a tutti i suoi paesaggi, dove si ha una percezione quasi allucinata, da rivelazione improvvisa, delle pietre, degli alberi, delle montagne, dei cieli, degli orizzonti. Ed è tutta un'esperienza visionaria che lo ricongiunge al mondo poetico di Domenico e lo esprime.
Diego Guadagnino
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