MARCO SCALABRINO, Il parlar franco

“Per anni sono andato in giro con il registratore o un taccuino in tasca, e quando sentivo qualcuno parlare in dialetto mi avvicinavo, gli facevo delle domande, mi mettevo a chiacchierare, e poi a casa trascrivevo tutto, mettendolo in poesia.” Così Franco Loi in un’intervista rilasciata a Luigi Mascheroni del maggio 2007.
Un nuovo numero de IL PARLAR FRANCO, la Rivista di cultura dialettale e critica letteraria, edita da Pazzini Stampatore Editore in Verucchio (RN), www.pazzinieditore.it. Un numero, il 10 del Marzo 2011, sottotitolato AL TRAGUARDO DEGLI OTTANT’ANNI, interamente dedicato a FRANCO LOI.
Un numero prezioso, sia nella accuratissima veste grafica, che consegna in copertina una bella foto in bianco e nero del Poeta, sia nelle fitte righe delle oltre centottanta pagine, che ne costituiscono di fatto una monografia.
Consolidati la direzione di Gualtiero De Santi e il comitato di redazione: Manuel Cohen, Massimo Gigli, Gianfranco Lauretano e Pier Giorgio Pazzini, qualificate le testimonianze ospitate nelle due parti del volume (un’essenziale distinzione tra un primo e un secondo tempo della creatività loiana, premette De Santi): Edoardo Zuccato, Manuel Cohen, Mimmo Grasso, Maria Lenti, Giuliano Ladolfi, Gualtiero De Santi, Daniele Maria Pegorari, Matteo Martelli, Emiliano Alessandroni, Alberto Sisti, Renato Pennisi, Guido Monti nonché Milo De Angelis.
Riporteremo, in questa rapida rassegna, solo alcuni passi dei saggi raccolti nella Rivista, privilegiando di mettere in luce il rapporto saldissimo fra Loi e il dialetto. Fra virgolette, poi, risuonerà la “voce” dello stesso Loi. Confidiamo che, malgrado il limite dovuto alla frammentarietà e alle lacune della odierna esposizione, questi stralci possano comunque essere indicativi della poesia di Loi.
Loi è stato come pochi altri – assevera Edoardo Zuccato – un poeta immerso nel suo tempo, il quale è caratterizzato da una babelica commistione il cui esito estetico non poteva essere un improbabile monolinguismo. Cresciuto in quella che allora era l’estrema periferia della città, dove la presenza di operai immigrati era altissima, [è] naturale dunque che la lingua prevalente (il milanese) subisse un processo di contaminazione con le lingue che gli immigrati portavano con sé. È vero che il dialetto che Loi ha ascoltato a metà Novecento era in forte trasformazione, ma è altrettanto vero che lui vi ha messo parecchio di suo modificandolo per fini estetici. Questo può spiegare, almeno in parte, il carattere non puro della lingua di Loi, la [cui] raccolta Stròlegh (1975) si è subito segnalata per la peculiarità del suo linguaggio, il suo uso molto libero del dialetto, evidente già dalla nuova grafia da lui adottata su consiglio di Dante Isella.
Nato a Genova nel 1930, da padre cagliaritano e madre colornese, all’età di sette anni si trasferisce con la famiglia a Milano. Le sue raccolte I cart e Poesie d’amore sono rispettivamente del 1973 e del 1974, ma sarà con Stròlegh del 1975 – asserisce Manuel Cohen – che si imporrà definitivamente all’attenzione degli addetti ai lavori. Il dialetto, o meglio la lingua adottata da Loi, quella della sua formazione nel suburbio meneghino, è quella parlata dalla “gente, sì veneta, emiliana, cremonese, meridionale, ma tutta milanese, poiché tutti si ingegnavano di parlarlo questo dialetto di Milano, questa lingua che ci apparteneva”. Romanzo memoriale in versi suddiviso in 42 sezioni variamente articolate e di lunghezza variata, dove domina uno stampo di endecasillabo naturale sapidamente piegato, Stròlegh, opera straordinariamente eccentrica e rivelante tutta intera la quiddità dello stile di Franco Loi, presenta le due grandi direttive riprese e continuate variabilmente nel corso della sua versatilissima opera in versi: la dimensione poematica rinnovata per altre e nuove vie in Teàter (1978), L’angel (1981), Liber (1988), e la dimensione lirica, precipuamente attestata nella seconda sezione del poema.
Chiarisce lo stesso Loi in una nota: “In quel periodo ero giunto, nel mio tentativo di sciorinare tutto quello che avevo dentro, ad una tale libertà espressiva che, all’interno della musica lombarda, mi ritrovavo un variegatissimo vocabolario d’ogni regione e nazione. Quando ho fatto l’esperienza della poesia, ho scritto in dialetto milanese: ho composto 119 poesie in un solo mese, il settembre del 1965. Quando cinque anni dopo ho incominciato a scrivere Stròlegh di nuovo ho scritto in milanese, cioè in una lingua che ha tutta la libertà del mio pormi al servizio della poesia, piuttosto che volerla dominare e condurre secondo i miei intenti. Allora inventavo le parole, le trovavo, le deformavo … salvo constatare poi che erano giuste e funzionavano. Vivevo una particolare condizione, che ho in parte descritto in Teàter: giravo per la stanza recitando ad alta voce i momenti della memoria e gli istanti poetici di quel mio presente. La poesia sembrava provenire da un altro o comunque da una sfera oggettiva, a cui il mio Io prestava ascolto, i miei sensi e il mio cuore prestavano la passione a cui la mia mente assisteva.”
L’impressione che si ricava dalla lettura di L’angel, romanzo in quattro parti, è quella – sostiene Gualtiero De Santi – di un andamento improvvisativo, aperto a tutto, libero da regole predeterminate. La lingua di mescolanze e contaminazioni inventata e a suo modo reimpostata e rinnovata da Loi, con un certo italiano che vive ai confini del dialetto e il dialetto di Milano e delle periferie che s’aggroviglia con le parlate liguri e colornesi e con le decine di gerghi dell’immigrazione interna, anche in questo caso offre il campo a una miscela esplosiva. La lingua poetica di Loi – dati la particolare biografia dell’autore, il naturale métissage di cui egli pare essere portatore e la sua opzione stilistica, cioè a dire espressiva – è un impasto unico, in sé non facilmente e agevolmente ripetibile. L’eco ispirativa viene lasciata risuonare sui punti nei quali il frullare magnetico delle esperienze collettive (e insieme delle personali del poeta nell’incontro con tutto questo popolo) ritrova motivi di accordo e di nuove fusioni e collisioni ... rendendo possibile per Loi anche l’iscrizione di una propria espressione colta, personalissima e inventiva. La poesia de L’angel si presenta insomma ampiamente contrassegnata da uno stigma e disegno al plurale, da una semantica collettiva.
Nel passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta, i critici – specifica Daniele Maria Pegorari – colgono un progressivo mutamento nell’uso del volgare milanese, da una intenzionalità mimetica e protestataria a un maggior tasso d’intimismo e di esplorazione dei territori della nostalgia e della innocenza perduta. Così, dopo lo snodo dei centrali anni Novanta, il dialetto diviene addirittura un medium metafisico e vagamente surreale, col quale poter discorrere della bellezza e della ricerca di Dio, approfittando di una libertà di combinazione sintattica che il parlato dialettale consente. Loi che del proletariato del suburbio milanese era stato l’interprete più fedele e sorprendente negli anni più aspri del conflitto sociale, ora procede a una progressiva sottrazione degli elementi contestuali che è anche un alleggerimento della lingua, via via privata della sua precedente robustezza espressionistica e delle punte sarcastiche o rancorose, per divenire più rarefatta e fiabesca. Questo nuovo orientamento lascia lo spazio a un frammentismo lirico che rinnova il legame di continuità col novecentismo più conclamato. La brevità tendenziale dei testi corrisponde a un restringersi della vita, un suo condensarsi in spazi minimali o residuali, circondati, di contro, da un’“aria” onnipresente, un universo in espansione costante, che relativizza la condizione umana e parrebbe dimostrare scientificamente l’esistenza di Dio. Al suo apparire nel ventesimo secolo, Loi ha mantenuto, sì, la forza del suo linguaggio, quello che il poeta aveva fatto totalmente suo in Stròlegh, ma non pare più potersi attendere un riscatto politico, né tanto meno meritarsi un’apoteosi epica, cui il poema del 1975 in buona sostanza tendeva: ora quel potenziale eroe collettivo si è frantumato in una miriade di incompiuti personaggi da commedia grottesca o da dramma metropolitano. La scrittura dell’ultimo Loi è ascolto più che pronuncia e questo modifica sostanzialmente anche lo statuto del suo stesso ricorso al dialetto.
Chiudiamo, come abbiamo aperto, con le parole di Franco Loi – fra i cui altri lavori citiamo: Arbur (1994), Verna (1997), Amur del temp (1999), Isman (2002), L’aria del temp (2008) – in risposta alle domande di Flora Restivo, in una intrigante intervista scovata in RETE: “Il mio intento era la ricerca della verità. Nel 1965, mi capitò tra le mani l’edizione Vigolo dei Sonetti del Belli. La lettura di quelle poesie mi colpì. Trovavo, finalmente, un poeta che “partecipava” alla vita di un popolo. Sono stato indotto a provarci anch’io; ma fu davvero il Belli o fu il cambiamento che intanto era avvenuto in me? Volendo parlare di personaggi operai e vittime della guerra, pensai che non avrei potuto farlo in italiano, che dovevo usare la loro lingua e così, indotto dalla materia di cui volevo trattare, volli scrivere in milanese. Fu così che scopersi di avere il milanese dentro di me, più di quanto pensassi e, per la prima volta, scopersi la poesia. Non scrivevo più secondo quanto la mia consapevolezza dettava, ma, se così posso dire, mi lasciavo scrivere, era tutto me stesso che partecipava all’evento – corpo, anima, memoria conscia e inconscia – e, proprio come dice Dante, “dettava dentro” e in una lingua che non era la mia usuale. In milanese avviene il miracolo: non è più il mio ego o la mia consapevolezza o la mia mente, ma sono tutte queste cose assieme e, forse, anche ciò che non so individuare di me che sudano le parole. Forse si può dire: Io più Dio. Sicuramente la gioia che mi è esplosa durante il fare poetico è quella che cerco ancora oggi e penso mi esprima di più.”

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