Relazione sul tema I DIRITTI DELLE DONNE E LE PARI OPPORTUNITA (un pensiero alle donne afgane) svolta in occasione del Convegno organizzato dal Comune di Prizzi l’8 marzo del 2001, in collaborazione con il club UNESCO di Prizzi.
Si fa un gran parlare oggi di diritti umani. Se ne parla nelle Organizzazioni internazionali come l’ONU, nei Parlamenti statali, sui giornali. Se ne parla o per sottolinearne l’importanza oppure per biasimarne le violazioni e denunciare i Governi che li calpestano. Quasi ogni giorno i quotidiani sono pieni di resoconti di discriminazioni, di massacri, di torture, di oppositori politici a regimi autoritari.
Attribuendo quest’anno il premio Nobel per la pace all’ONU a Kofi Annan, malgrado i numerosi fallimenti, (non sono riusciti ad impedire il genocidio in Ruanda, 500 caschi blu sono stati presi in ostaggio in Sierra Leone, ecc.), gli accademici scandinavi hanno voluto ribadire i valori spesso umiliati di cui questa Organizzazione è espressione. Una iniezione di coraggio dunque, poiché adesso (dopo i successi in Kosovo, la lotta all’AIDS, la creazione del tribunale ONU per giudicare i crimini di guerra in Ruanda e nell’Ex Iugoslavia, il programma di aiuti alla popolazione irachena dopo l’embargo) ciò che attende attende l’ONU è una difficilissima sfida: “lavorare per la ricostruzione nazionale dell’Afghanistan”. Intanto, per le attuali emergenze umanitarie in Afghanistan, le Nazioni Unite hanno chiesto 268 milioni di dollari alla comunità internazionale, ma finora sono stati stanziati solo 52 milioni di dollari, e ciò dimostra un preoccupante disinteresse.
Attribuendo quest’anno il premio Nobel per la pace all’ONU a Kofi Annan, malgrado i numerosi fallimenti, (non sono riusciti ad impedire il genocidio in Ruanda, 500 caschi blu sono stati presi in ostaggio in Sierra Leone, ecc.), gli accademici scandinavi hanno voluto ribadire i valori spesso umiliati di cui questa Organizzazione è espressione. Una iniezione di coraggio dunque, poiché adesso (dopo i successi in Kosovo, la lotta all’AIDS, la creazione del tribunale ONU per giudicare i crimini di guerra in Ruanda e nell’Ex Iugoslavia, il programma di aiuti alla popolazione irachena dopo l’embargo) ciò che attende attende l’ONU è una difficilissima sfida: “lavorare per la ricostruzione nazionale dell’Afghanistan”. Intanto, per le attuali emergenze umanitarie in Afghanistan, le Nazioni Unite hanno chiesto 268 milioni di dollari alla comunità internazionale, ma finora sono stati stanziati solo 52 milioni di dollari, e ciò dimostra un preoccupante disinteresse.
Il bilancio umano ed il quadro socio-economico e culturale dell’Afghanistan è agghiacciante. Da 23 anni (dal colpo di stato comunista del 1978) la popolazione afgana fugge dalla propria terra. Secondo l’Alto Commissario per i rifugiati dell’ONU, vi sono più di 5 milioni di rifugiati sparsi tra Pakistan, Iran, Europa, America (cui vanno aggiunti i morti civili causati dall’attuale conflitto). Dopo gli attuali bombardamenti, almeno altri 80.000 afghani sono passati illegalmente in Pakistan, affidandosi a trafficanti senza scrupolo che esigono 50 dollari a persona per farli attraversare. E sono i più fortunati, poiché più di un milione di sfollati, i più poveri e i più malati, vagano all’interno dell’Afghanistan incuranti delle bombe che piovono loro addosso, sono più di mille i civili uccisi. A causa della fame e delle malattie, e a prescindere dall’attuale conflitto che tuttavia non può che aggravare il triste fenomeno, circa il 30% dei bambini muore prima di arrivare a 5 anni. Si calcola ancora che più di sette milioni di afghani sono sottonutriti. Stiamo parlando del paese più povero del mondo dove si vive di misera agricoltura, di pastorizia nomade e si pratica ancora il baratto. Da quando nel 1996 i Talebani hanno preso il potere, l’Afghanistan è anche il paese più ignorante. Si calcola che oltre il 75% della popolazione è analfabeta. Il paese è privato di ogni struttura di formazione. Alle ragazze è vietato studiare, i ragazzi possono frequentare solo le madrase, le scuole religiose, dove si studia solo il Corano. Com’è tristemente noto, la fonte di entrata prevalente è rappresentata dalla produzione di oppio. L’Afghanistan ne è il primo produttore. Un affare sporco che frutta migliaia di miliardi di cui, peraltro, al popolo Afgano arrivano solo le briciole. Il tentativo di convertire le colture, come rivela l’Agenzia antidroga delle Nazioni Unite, evidentemente non ha retto. Le coltivazioni alternative, oltre a rendere di meno, non hanno mercato. Gli acquirenti di oppio sono in fila ad ogni stagione. Le leggi di mercato sono spietate (oggi vi sono fondati sospetti di una relazione diretta tra traffico di droga e terrorismo, si sospetta che Bin Laden vorrebbe produrre una super-eroina, non si sa bene se per indebolire ulteriormente il nemico occidentale, in questo caso rappresentato dal consumatore). Come si vede c’è da che preoccuparsi! Non c’è dubbio che il regime talebano, fanatico, paranoico e privo di qualsiasi legalità, vada combattuto. Oggi il nemico numero uno delle nostre libertà è il fanatismo religioso, tanto più devastante quanto più si combina con regimi totalitari. È il caso dei Talebani, che hanno instaurato un regime insostenibile e pericoloso. Essi stessi, custodi del traffico di droga, dopo 6 anni dalla presa di potere a Kabul, non sono stati in grado né di governare né tanto meno di ricostruire. Quasi nessuno se l’è sentita di riconoscere il nuovo regime. (L’Afghanistan affonda, ma altri regimi militari e dittatoriali che hanno adottato la forma più integralista del Corano esistono ancora, si pensi allo Yemen, alla Somalia, all’Algeria etc.
Nell’introduzione al libro “Afghanistan anno zero” di Giulietto Chiesa-Vauro, Gino Strada (il medico chirurgo di Emergency, associazione umanitaria che ha come obiettivo assistere le vittime civili dei conflitti e tutti coloro che soffrono altre conseguenze delle guerre quali fame, malnutrizione o assenza di cure mediche) nel sostenere che l’Afganistan è il Paese più povero del mondo, racconta una leggenda:
Quando Dio creò la Terra decise anche dove piazzare i diversi Paesi: qui l’Italia, più su la Svizzera, l’Austria, la Germania, o qualcosa di simile. Una volta iniziato questa specie di gioco, dopo aver posato i primi pezzi del puzzle, Dio fu costretto, si racconta, ad adattare un po’ i confini, limando e tagliando, in modo da incastrare tutti i Paesi del Pianeta. Alla fine si trovò con tanti ritagli, striscioline, spigoli, coriandoli, roba di scarto insomma. Allora prese il tutto e lo gettò nel buco che, sul mappamondo, era rimasto vuoto, tra il Medio Oriente, l’Asia centrale e il sub continente indiano. E disse: “Questo è l’Afghanistan”.
Ho seri dubbi che sia andata davvero così, ma sta di fatto che nel buco, grande poco più di due volte l’Italia, sono finiti 55 gruppi etnici che parlano oltre una ventina di lingue. Nessuno di loro si definisce Afgano, ma pusthun, tagiko, hazarà, uzbeko. Una simile babele non avrebbe potuto perpetuarsi senza l’aiuto fornito dalle caratteristiche geografiche della terra Afgana, inaccessibile e inospitale. L’Afghanistan è da sempre crocevia fondamentale tra la Cina, l’India, l’Asia centrale e l’Europa. Attraverso la “Via della Seta” sono passati oro e argento, tessuti, cotone e spezie e fin da allora, armi e droghe. Un passaggio obbligato, dunque, dove gli abitanti hanno pagato e pagano un prezzo inimmaginabile per il solo fatto di trovarsi in uno “Stato cuscinetto”. Negli ultimi due secoli ci hanno provato in molti a domare le valli e i deserti. Dall’inizio del diciannovesimo secolo, la Russia zarista, gli eserciti della Corona Britannica, persino Napoleone Bonaparte, hanno a lungo inseguito il miraggio di impossessarsi delle ricchezze dell’India, ignorando, sempre a loro spese, che bisognava fare i conti con l’Afghanistan. Il tutto si è rivelato una grande carneficina. Dopo gli accordi che nel 1842 misero fine alla prima guerra Anglo-Afghana, ancora oggi, lasciando Kabul in direzione di Jalalabad, si può immaginare il calvario dei 16.000 militari inglesi morti di freddo e di fame tra le strette gole e gli alti passi di montagna. Ma le lezioni della storia sono le più difficili da imparare. Così ci hanno riprovato in molti, dai Sovietici agli Stati Uniti, al Pakistan. A dare la spinta a diverse evoluzioni furono le grandi riserve di petrolio e di gas che venivano emergendo dalle prospezioni attorno alle rive e nei fondali del mar Caspio. Dal 1933 al 1973 l’Afghanistan. è governato da una monarchia assoluta e patriarcale con a capo il re Zahir Shah. Durante la seconda guerra mondiale, il Paese riesce a mantenere l’integrità nazionale e una difficile neutralità. A partire dagli anni cinquanta diventa di fatto un protettorato dell’Unione Sovietica. Kabul cerca l’appoggio dell’URSS in chiave antiamericana, per difendersi da Iran e Pakistan. Mosca considera nevralgico l’Afghanstan per il controllo della via verso il mare Arabico, cioè verso il petrolio. Nel 1964 Zahir Shah approva una nuova Costituzione trasformando il regno in una democrazia con libere elezioni e diritti civili. Nove anni più tardi, il suo tentativo di allontanarsi dalla sfera di influenza sovietica lo costrinse in esilio. Un colpo di stato condusse al potere dei militari filo-sovietici, che si alienarono ben presto, con la durezza del loro regime e con riforme moderniste, le simpatie della popolazione, in massima parte rurale e legata fortemente alla tradizione islamica. Nel 1979, i sovietici decisero di imporre con la forza un governo più fidato e invasero militarmente il paese. Ne nacque un’accanita resistenza popolare e una guerra senza esclusioni di colpi che ha causato, in oltre 8 anni, un milione di morti, 5 milioni di rifugiati (divisi tra Pakistan e Iran). Non si può dire che ai tempi della monarchia l’Afghanistan fosse un compiuto Stato di diritto: l’esercito ogni tanto sparava sui dimostranti e, nelle province remote, la giustizia era esercitata dal capotribù secondo codici tradizionali tra i più conservatori del mondo islamico (frustate, lapidazione, etc.); ma se oggi chiedi alle ragazze di “RAWA” (l’Associazione rivoluzionaria delle donne afgane) quale sia stata l’epoca migliore per le donne Afgane, ti rispondono: il tempo di re Zahir Shah. E adesso che quel re, in fondo liberale e coraggioso, si appresta a tornare in Afganistan dal suo lungo esilio in Italia, le rivoluzionarie Afgane sperano che si possa almeno tornare a 30 anni fa quando donne afgane sedevano nel Consiglio dei Ministri, il velo non era obbligatorio e il sesso non precludeva il diritto all’istruzione e al lavoro, senza contare che la polizia segreta non ammazzava, o quanto meno non al ritmo del KGB. Con l’armata rossa un burqa ideologico calò sulle patriote afgane. Tra quelle che scelsero l’esilio c’era la fondatrice di Rawa, Meenah, assassinata in Pakistan nel 1987. Quando le spararono, era da tempo nella lista nera tanto della polizia segreta comunista quanto dei mujahiddin che combattevano i sovietici, più esattamente della banda di Gulbuddin Hekmatyar, un tagliagole finanziato dai servizi segreti pachistani e armato dalla CIA. Il proto-liberalismo e il femminismo si sono trovati nella terra di nessuno: bersagli tanto dell’armata rossa quanto delle milizie fondamentaliste, che dal lato opposto si schieravano con i campioni del “mondo libero”. Fuggita l’armata rossa, i Mujahiddin presero Kabul e se ne disputarono le spoglie con razzi Katiusha. I vincitori instaurarono un regime semi-fondamemtalista, comunque meno sinistro di ciò che sarebbe seguito: il regime integralista e fondamentalista dei Taliban (per inciso, è bene ricordare cosa si intende per fondamentalismo e integralismo, parole nate in Europa all’interno del mondo cristiano, ma che vengono ora applicate ad atteggiamenti e posizioni culturali e politiche presenti anche in altre religioni, in particolare nell’Islam. Per costoro, poiché con il tempo, la religione si è andata corrompendo e trasformando, bisogna tornare alle origini, ai “fondamenti della religione”. Per es. è stato questo l’atteggiamento della Riforma protestante del XVI secolo. Ed è questo l’atteggiamento dei kamikaze che si sono scagliati contro le torri gemelle. Questo atteggiamento è frequente in quelle religioni che hanno racchiuso e codificato la rivelazione divina e l’insegnamento delle origini in un libro sacro, come la Bibbia o il Corano. L’integralismo è una cosa diversa, ma affine; esso consiste nel non riconoscere altra realtà che quella religiosa, e nel subordinare ad essa ogni aspetto della vita sociale, civile, politica. È considerato integralismo, ad esempio, il non ammettere che la vita politica o l’arte o la scienza possano avere regole proprie e non dettate dalla religione. Il cristianesimo, nel medioevo, è stato integralista; esso subordinava il potere temporale all’autorità della chiesa e la produzione artistica e poetica ai valori della fede. Ancora nel Cinquecento-Seicento scienziati come Copernico e Galileo vennero condannati per aver rovesciato dottrine tradizionalmente accettate e per aver difeso il diritto alla libertà della ricerca scientifica). Il fondamentalismo dei talebani invita il popolo afgano alla jihad. Il resto è triste cronaca di un regime instaurato per la repressione del vizio e la propalazione della virtù che vieta alle donne lo “status di persona”. Non c’è cosa migliore che citare alcuni versi della poesia “Mai più tornerò sui miei passi” di Meena, fondatrice di RAWA, per capire lo stato in cui versano le donne:
Sono una donna che si è destata, mi sono alzata e sono diventata una tempesta che soffia sulle ceneri dei miei bambini bruciati, dai flutti di sangue del mio fratello morto sono nata, l’ira della mia nazione me ne ha dato la forza, i miei villaggi distrutti e bruciati mi riempiono di odio contro il nemico. Ho visto bambini a piedi nudi smarriti e senza casa, ho visto spose indossare abiti di lutto, ho visto gli enormi muri delle prigioni inghiottire la libertà nel loro insaziabile stomaco. Ho compatriota, oh fratello non considerarmi più debole e incapace. Sono una donna che si è destata.
In aggiunta alle migliaia di avversità, le restrizioni dei talebani, che qui di seguito elenco, conducono le donne all’accattonaggio, alla prostituzione o al suicidio. Per esempio, le donne non possono lavorare fuori casa, non possono camminare in strada se non accompagnate da un parente stretto, non possono trattare con negozianti maschi, non possono essere curate da medici maschi, vengono lapidate se accusate di adulterio, non possono dare la mano a uomini non mahram (parente stretto), non possono prendere un taxi, non possono parlare alla radio, apparire in televisione o partecipare ad incontri pubblici, non possono ridere ad alta voce, non possono fare sport, incontrarsi per scopi ricreativi, non possono affacciarsi al balcone delle loro case, le finestre devono essere oscurate con la vernice, non hanno a disposizione bagni pubblici, non possono viaggiare che su autobus a loro riservati. Quella delle donne è in sostanza una vita senza diritti, senza futuro, ostaggi del regime. Roba da medioevo in sostanza. Per le donne che contravvengono ai dettami dei talebani, la punizione è immediata. Se una donna semplicemente fa del rumore camminando, può essere picchiata da qualunque uomo incontri. Adesso sotto le bombe tutto è più difficile. Le donne afgane vivono la guerra, nella prigione che i talibani hanno imposto loro e che ora rischia di diventare una tomba per mano degli americani. Un bimbo afgano ha disegnato la madre così come la vede: un fantasma senza braccia e senza volto, cancellata dal “burqa”. Tutto ciò è semplicemente una barbarie. Molte donne, come la giovane Laida Omid non reggono e si suicidano. In ricordo di questa ventenne ragazza istruita e di talento, citiamo alcuni versi di una tra le tante sue poesie dal titolo “ Razza del trono, fermatela ”, dove si evince il suo profondo odio per i fondamentalisti che hanno distrutto il suo paese, la sua gente, il suo spirito.
Guarda il cielo - spargi amare lacrime - bambini senza meta - madri derubate - mendicanti dappertutto - inverno senza fine - ragazzi orfani – nemico - oh nemico - per quanto ancora succhierai il sangue? - La gente è addolorata - la mia kabul s’e’ trasformata in rovine - per le tue sporche mani - per quanto ancora la distruggerai? - Per quanto ancora ammazzerai vagante nella montagna - Col nostro sangue chiediamo la nostra terra.
Lo stesso giorno, 18 Aprile 1994, un’altra donna afgana, la sposa del preside Noor Ahmed, si è bruciata gettando benzina sul suo corpo nella città di Herat. Questi versi rappresentano solo una minima parte di ciò che succede in questo paese, oggi e da parecchi decenni devastato. I giocatori patriottici, che sostengono l’indipendenza nazionale, la democrazia, i diritti e i valori umani e guardano al futuro e non al passato, sono stati energicamente respinti dal palco. Se la Rawa e gli altri gruppi laici e democratici avessero avuto un minimo di sostegno internazionale, lo sfortunato Afgano non sarebbe rimasto alla mercè dei selvaggi, dei misogini e medievali talebani. A causa della visione di parte dello scenario afghano, gli aiuti umanitari internazionali sono arrivati attraverso organizzazioni non governative, le quali hanno trovato comodo e pratico servirsi di gruppi o partiti religiosi oscurantisti e di equivoche organizzazioni locali “apolitiche” per le consegne, andando così a foraggiare i nemici del popolo Afgano e assegnando pochi fondi ad associazioni come Rawa che lottano per i diritti delle donne, fornendo strutture sanitarie e servizi di scolarizzazione per donne e bambini.
Il Presidente francese Jacques Chirac, in un discorso pronunciato alla Conferenza generale dell’Unesco e ripreso dal quotidiano “La Repubblica”, sotto il titolo “La sfida delle culture in un mondo globale”, nel ribadire il pericolo che il XXI secolo sconfini in uno scontro tra civiltà, trappola tesa dai terroristi, per contrapporre le culture e le religioni, rilancia una diversa realtà politica, morale e culturale: quella del rispetto, dello scambio, del dialogo tra tutte le culture, inseparabili dai valori sottesi a ciascuna di esse. Continua ancora Chirac: “L’Occidente non ha dato forse la sensazione di imporre una cultura dominante, essenzialmente materialista, vissuta come aggressiva dal momento che la grande maggioranza dell’umanità la osserva e ne è sfiorata senza potervi accedere? Fino a che punto una civiltà può voler esportare i propri valori? Oggi si parla molto di globalismo senza sapere bene di che cosa esattamente si tratti, se sia una ripetizione del colonialismo, o un superamento, se un modo per accelerare lo sviluppo di tutti i paesi della terra o per aumentare le differenze, se per avere un più largo consenso al sistema o per creare nuove ingiustizie. Dice lo storico Hobsbawn: “Tutto ciò che sappiamo con certezza è che un’epoca della nostra storia è finita. Viviamo nell’incertezza e nella paura. Di certo sta profilandosi un globalismo di stampo imperialistico dove 56 macroaziende, 13 con bilanci superiori a quelli di una nazione media europea, guidano l’economia mondiale. Sembra molto verosimile l’assunto di Keynes, quello delle giraffe con il collo più lungo che mangiano tutte le foglie e lasciano morir di fame quelle con il collo più corto. Giorgio Bocca nell’ultimo libro “Ricchezza per pochi, povertà per molti” sostiene che “questo mondo superconnesso da aerei, da computer e da reti informatiche, resta il mondo delle diversità inique. Si è persistito in quella politica economica che ha continuato a dividere il mondo in un quarto ricco e tre quarti povero. Si scava un solco sempre più profondo e cinico tra i Paesi del benessere dove si spende per le diete, ed i Paesi della fame e della miseria più nera. La giornalista Livia Dini, in un articolo su "La Repubblica", sostiene che la tragedia americana dell’11 Novembre, con decine di migliaia di morti, donne e uomini, giovani e vecchi, ricchi e poveri, si poteva forse evitare se i Paesi ricchi si fossero accorti in tempo che il terrorismo più fanatico si stava radicando nella disperazione e nel rancore del “pianeta miseria”.
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