LUIGI FICARRA, Per Giorgio Ambrosoli

Quando nel gennaio 2002 costituimmo qui a Padova l’associazione dei Giuristi Democratici fu naturale per noi scegliere per essa il nome di Giorgio Ambrosoli. Una motivazione non politica – diverso essendo stato il suo orientamento di liberale vecchio stampo -, ma essenzialmente morale. Egli costituisce l’esempio di un avvocato che in tutta la sua attività e, quindi anche in quella ultima di Commissario liquidatore della Banca Privata Italiana di Sindona, dal sett. 1974 al luglio ’79, quando venne assassinato, si batté sempre per la difesa del principio di legalità, rendendosi, così soltanto, partecipe vero della giurisdizione.
Quel che dovrebbe fare ed invece molte volte oggi non fa chi svolge tale professione. Come G. D. siamo quindi orgogliosi che, in accoglimento dell’istanza da noi presentata due anni fa, gli sia intestata oggi un’aula di questo Tribunale; e che, pure in accoglimento di una nostra istanza, quest’aula di Corte d’Assise venga intitolata alle due stelle guida nella lotta per il diritto: Falcone e Borsellino.
Giorgio Ambrosoli si trovò ad operare in un contesto nero, segnato dall’illegalità e dall’intrigo fra illeciti interessi economici, da un lato, ed esponenti politici di primo piano, dall’altro: tutto sotto il segno del potere massonico e mafioso e dei servizi segreti. L’esponente di questi ultimi, Vito Miceli, capo del SID, colui che presentò Sindona a Gelli, venne fatto arrestare nel 1974 a Padova dal giudice Tamburino quale capo dell’organizzazione eversiva “Rosa dei venti”, che aveva il progetto di instaurare con un colpo di stato un governo autoritario. (Poi l’inchiesta passò a Roma, dove venne insabbiata). Lo ricordo, perché secondo quel progetto eversivo, la cui conferma certa si ebbe poi nel 1990 col disvelamento della operazione Gladio, Michele Sindona, - il “genio del male”, contro cui lottò con tutte le sue forze Giorgio Ambrosoli -, era destinato ad essere ministro delle Finanze: lui, l’uomo della mafia e della finanza nera.
Da un lato Ambrosoli, lasciato solo, assieme al suo fido collaboratore ed amico, il maresciallo della G. d. Finanza, Novembre; e dal lato opposto, schierato con Sindona, gran parte del potere, quello politico-mafioso ed anche quello clericale dell’epoca: Andreotti, in primis, e con lui quasi tutta la D.C., lo IOR, la potente “Banca” del Vaticano, l’alta finanza, con in testa in particolare i vertici del Banco di Roma, la CIA, la Massoneria di Gelli, grandi esponenti politici dell’epoca, come Stammati ed Evangelisti, alti magistrati, come Spagnuolo, che coprendo d’onta l’intero ordine giudiziario, si spinse a scrivere nel suo affidavit del ’76 che “le accuse mosse a Sindona (Bancarotta fraudolenta, falsi in bilancio, truffa aggravata e ripetute violazioni di tutte le leggi bancarie) erano infondate e frutto solo dell’accanimento contro le sue idee politiche”.
Ambrosoli, ripetutamente minacciato di morte, non cedette ed andò avanti, dritto, nel suo lavoro di servitore della giustizia e della legge, pagando con la vita la sua elevata dedizione al dovere; così come non cedettero Baffi e Sarcinelli, rispettivamente Governatore e capo della Vigilanza della Banca d’Italia, i quali proprio per questo vennero arrestati nel marzo 1979, complice una parte servile della magistratura romana: una delle pagine più nere ed umilianti, questa, della storia d’Italia.
Purtroppo, anche la storia recente è stata segnata da illegalità e corruzione diffusa e tuttora è forte e dominante il potere politico-mafioso: basti pensare che un Presidente del Consiglio, or non è molto, parlando della P2 di Gelli, cui anche Sindona fu affiliato, si è spinto a dire che era “un club di gentiluomini”.
Ripercorrendo la vita di Ambrosoli e l’esempio fulgido che ci ha lasciato possiamo dire forte che “la questione morale è la vera essenza della questione politica”. E comprendiamo infine perché nel frontespizio della sua tesi di laurea Egli abbia riportato proprio questo passo de ”L’apologia di Socrate” di Platone: “Il giudice non siede allo scopo di amministrare a suo piacere la giustizia – (guidato cioè dall’interesse particolare del giudicato e-o, per obbrobrio, anche suo) -, ma di decidere ciò che è giusto ed ingiusto - (secondo, quindi, principi universali, per perseguire l’interesse pubblico).

Padova 21 ottobre 2006

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