Luciano di Samosata, scrittore satirico greco del secondo secolo della nostra era, autore famoso dei celebri “I dialoghi degli dei”, “I dialoghi dei morti” e “Lucio o l’asino”, non si pose minimamente il problema della fede, ché, come dice Sciascia, “(a lui) non importava assolutamente nulla delle illusioni, non voleva né darsene né farsene. ….gli importava soltanto della libertà”.
E per comprendere l’epoca di transizione, dalle vecchie alle nuove credenze, in cui gli toccò di vivere, fondamentale è a mio avviso il passo dello Zibaldone, riportato da Sciascia nel suo saggio, "Luciano e le fedi" (in “Cruciverba”, Einaudi, 1983, ora Adelphi), dove Leopardi dice: «prevalendo sempre più la ragione ed il sapere, … quelle religioni più naturali e felici (la religione olimpica), ma perciò appunto più rozze, non potevano .. più servire di fondamento a illusioni .... stabili e quindi alla felicità. Le nazioni (i popoli) pertanto disingannandosi a poco a poco perdevano colle illusioni ogni vita. Bisognava richiamare quelle illusioni. Ma come … se la ragione ed il sapere erano padrone dell’uomo? ... Non c’era altro mezzo se non (che) una nuova religione, ammessa e creduta per vera dalla ragione e conforme ai lumi di quel tempo: la qual religione tornasse a far la base delle illusioni perdute. .... Insomma bisognava che questa religione .. fosse parto della ragione e del sapere. O parlando cristianamente, bisognava che una espressa rivelazione assicurasse la ragione che quelle credenze ch’ella aveva ripudiate erano vere …».
Sulla fede, in quanto tale, cioè come credenza nella trascendenza, penso avesse ed abbia tuttora ragione Agostino, il quale diceva che è un dono della grazia divina.
Pelagio, convinto della libertà, autonomia e dignità dell’uomo, negò la concezione paolina del peccato originale, considerandolo giustamente “colpa” personale di Adamo, in consonanza, a mio avviso, con la tradizione rabbinica. (Che interpretava la “disobbedienza” di Adamo ed Eva come primo peccato – pesha -, non come causa della tendenza dell’uomo verso il male, come per la comune interpretazione cristiana, per la quale le conseguenze di detto “peccato” originale furono e sono tali per cui, come dice Paolo nella lettera ai Romani, “tutti siamo peccatori in Adamo”).
Pelagio, ponendosi da un punto di vista che oggi potremmo definire liberale e laico, sosteneva cioè che la condizione del primo uomo, Adamo, - (ed io aggiungo, per rispetto della differenza di genere, della prima donna, Eva) – non era e non è da ritenere diversa da quella in cui nascono gli altri uomini. Pertanto, egli diceva, la “colpa” in cui egli (essa) è caduto/a non può ovviamente aver causato alcun danno alla posterità, perché il “peccato” (pesha, violazione), è appunto un atto volontario e di conseguenza la responsabilità di esso può cadere solo su chi lo ha commesso. Da tale logica premessa discende – diceva ancora Pelagio – che la volontà umana, essendo rimasta libera e buona, può ottenere la libertà (la santità) anche senza la grazia e l’opera redentrice del Cristo, può cioè conseguire la salvezza mediante il libero arbitrio e senza alcun intervento straordinario da parte di Dio. In tal modo, però, veniva a cadere la base, il fondamento su cui poggiava e poggia l’intero edificio della concezione religiosa cristiana: secondo la quale, infatti, solo col sacrificio di Gesù Cristo, figlio di Dio ed egli stesso uomo-dio, inviato a tal fine dal padre sulla terra, gli uomini, aderendo al suo messaggio, (attraverso la fede, che è un suo dono, ed attraverso il battesimo), possono salvarsi, liberati dal peccato originale, che, a partire da Adamo ed Eva, si è trasmesso e si trasmette in ciascuno di essi. Che è quanto sosteneva con forza Paolo, (ritenuto il vero ordinatore-fondatore del cristianesimo), nella lettera ai Romani: “come per la disobbedienza di quell’uomo solo (Adamo) i molti furono costituiti peccatori, così per l’obbedienza (al padre) di quel solo (Gesù Cristo) i molti saranno costituiti giusti”. Per Paolo, quindi, solo il sacrificio di Cristo, la sua morte e la sua “resurrezione”, credenza fondamentale del cristianesimo, rende possibile agli uomini di salvarsi, e garantisce loro la vita eterna e la vittoria sulla morte, la paura ed il terrore della quale, come sostengono Freud, Bataille, Lacan e tutto il pensiero laico moderno, è all’origine della costruzione della “civiltà”.
Agostino, il quale, nei suoi primi scritti, aveva insistito sul carattere personale della responsabilità morale ed aveva sottolineato tutto quanto l’uomo può fare per giungere alla salvezza - (Kant nella “Critica della Ragion Pratica” porrà il postulato della libertà, senza la quale non può parlarsi di azione morale) -, capì il pericolo enorme che la concezione di Pelagio, che si ricollegava anche a posizioni stoiche, rappresentava per il cristianesimo: infatti, negando la necessità della redenzione data dal sacrificio di Cristo, crollava, ripeto, tutta costruzione paolina e cristiana, che poggiava e poggia proprio su tale evento. Agostino sostenne, pertanto, che dopo la colpa originale , che investe nelle sue conseguenze tutta l’umanità, l’uomo è un essere decaduto e dannato davanti a Dio, ed anche il suo libero arbitrio è talmente indebolito, da renderlo del tutto incapace di resistere al male; e conseguentemente egli fece propria nella sua interezza l’interpretazione ed il messaggio di Paolo. Ed affermò quindi che l’iniziativa divina nella salvezza, attraverso la grazia, di cui la fede è un dono, ha una priorità assoluta rispetto all’iniziativa umana, in quanto Dio sceglie coloro che saranno salvi in base a criteri che sfuggono completamente alla comprensione umana: solo Dio, egli dice, predestina alcuni alla salvezza e senza tale intervento la salvezza non è possibile.
Alcuni anni fa Luigi Lombardi Vallauri, professore di filosofia presso l’Università Cattolica di Milano e profondamente cristiano, ebbe l’ardire di sostenere che sarebbe assurdo attribuire a Dio una concezione della responsabilità personale propria di alcune fra le più arretrate delle civiltà arcaiche: ognuno è responsabile delle scelte che liberamente compie e pertanto non può dirsi che Dio abbia voluto che la colpa originaria di Adamo si sia trasmessa e si trasmetta all’intera umanità. La Chiesa Cattolica, comprendendo il pericolo gravissimo che tale posizione rappresentava per l’intero edificio della fede, la condannò duramente, destituendo dall’incarico detto professore: alla Cattolica, ovviamente, non si può insegnare se non si seguono i dettami della Chiesa.
Tutto ciò mi fa pensare alla grandezza di Luciano, che, come dice Sciascia, nel suo saggio, “è l’immagine di una libertà per sempre perduta, di una condizione mai più ripetibile: e perciò gli spiriti liberi lo amano e se ne confortano quando più intorno a loro si stringe l’assedio di quella che ai tempi di Luciano era semplice stupidità e divenne poi, fino ai nostri incommensurabilmente, fanatismo”. Così come l’amarono Voltaire, Leopardi, Savinio, Settembrini, Sciascia e tanti altri.
Ritengo utile citare in merito due passi di Marx, il quale diceva: “Noi non trasformiamo le questioni terrene in questioni teologiche. Noi trasformiamo le questioni teologiche, in questioni terrene. Dopo che per lungo tempo la storia si è risolta in superstizione, noi risolviamo la superstizione in storia”. Ed ancora: “Gli economisti hanno un curioso modo di procedere. Non esistono per essi che due tipi di istituzioni, quelle dell’arte e quelle della natura. Le istituzioni del feudalesimo sono istituzioni artificiali, quelle della borghesia sono istituzioni naturali. Ed in questo modo gli economisti somigliano ai teologi, i quali pure distinguono fra due tipi di religione. Ogni religione che non sia la loro è un’invenzione degli uomini, mentre la loro è un’emanazione di Dio”.
Ultima triste notazione: se teniamo conto anche di quel che dicono i vari Socci sulle madonne che piangono e sanguinano, come accadeva ai tempi di Cicerone, che, scrivendo ad un suo amico, diceva che tale fenomeno si presentava frequentemente in periodi di guerre e calamità naturali, ritengo non si possa non essere d’accordo col grande Pessoa, che nel passo opportunamente citato da Sciascia in relazione a quello di Leopardi, scrive: “nasce un dio, altri muoiono; la verità né venne né se ne andò: mutò l’errore”.
Penso infine che occorra rivisitare ancora il pensatore per me tra i più avanzati e rivoluzionari dell’era moderna, Leopardi, che nel suo canto più elevato, “La ginestra”, criticando i suoi contemporanei che, allontanatisi dal pensiero illuminista e dal materialismo, aderivano alla restaurazione ed alle posizioni cattoliche più reazionarie, scrive: <<….. secol superbo e sciocco,/ che il calle insino allora/ dal risorto pensier segnato innanti/ abbandonasti, e volti addietro i passi,/ del ritornar ti vanti,/ e proceder il chiami./ …….. non io/ con tal vergogna scenderò sotterra;/ ma il disprezzo piuttosto che si serra/ di te nel petto mio/ mostrato avrò quanto si possa aperto:/ ……..>>.
Padova giugno 2007
Luigi Ficarra
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