GIUSEPPE CARLO MARINO, Brigantaggio meridionale e "guerra di classe" dopo l'Unità (1861-1870)

Uno storico, che lo sia pure per mestiere, non scrive a freddo di storia, soprattutto se è invitato a farlo in un clima di giudizi contrastanti e di risorgenti passioni qual è certamente quello che sta contrassegnando il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia.

Il tema sul quale mi è richiesto un intervento è tra i più contrastati e contrastanti: il brigantaggio meridionale (1861-1870) all’indomani della formazione del Regno. Il contrasto comincia dalla stessa definizione del fenomeno: dirlo “brigantaggio”, secondo l’uso invaso in larga parte della storiografia, è già di per sé un giudizio di valore che ne declassa la natura a fenomeno criminale conferendo un virtuoso senso legalitario e patriottico all’opera dello Stato unitario che duramente lo represse, come meglio preciseremo fra poco.
Ma ne esistono almeno altre tre definizioni, tutte e tre di minoranza, per quanto stiano ottenendo consensi sempre più ampi (e anch’essi differenziati e contrastanti) ai nostri giorni: “resistenza meridionale”, “guerra civile” , “guerra di classe”. Per quanto mi riguarda, dichiaro di stare con la minoranza e, in essa, di propendere per l’ultima delle tre definizioni sopra indicate.
Sarà pertanto mia cura in questo breve scritto tentare di motivare perché A rifiutando come storiograficamente errata la rappresentazione del fenomeno in termini di brigantaggio A ritengo di far bene il mio mestiere attestandomi su quella della “guerra di classe”. Questo, avvertendo, però, che se si guarda con approssimazione all’intero dramma vissuto dal Sud in quegli anni, non sarebbe sbagliato riconoscervi taluni aspetti caratteristici sia delle resistenze che delle guerre civili. Infatti, i cosiddetti briganti (da indicare d’ora innanzi, ben più correttamente, con il termine “ribelli”) in qualche modo erano dei resistenti, in quanto e perché resistevano alle modalità con le quali era in corso il processo di fondazione dello Stato unitario che, nell’inglobare quello borbonico sconfitto dai garibaldini, stava passando come un rullo compressore sull’intera sistema socio-economico-culturale del Sud. Attuata l’annessione del Sud, il Nord, detto allora dei “piemontesi”, si era intestato la cosiddetta rivoluzione nazionale autorappresentandosi, non senza disinvolti accenti razzistici, come forza civile e civilizzatrice, depositaria della modernità, della libertà e del progresso contro un barbaro mondo meridionale, considerato detestabilmente antiliberale e “cafone”: un’annessione che declinava le parole d’ordine della rivoluzione nazionale (dai contenuti e dai fini decisamente borghesi) nelle pratiche quotidiane di una miriade di ottusi burocrati affiancati da altre analoghe teste di legno in divisa militare; un’annessione come violenza antropologica, come diktat di un’astratta legalità platealmente divaricata dalla giustizia sociale invocata dai ceti popolari e sinceramente promessa da Garibaldi.
Oltre che resistere nei termini anzidetti, i ribelli, con una sollevazione spontanea dilagata nelle campagne dell’intero Mezzogiorno continentale (1) erano entrati in lotta – l’avrebbe riconosciuto la Commissione parlamentare d’inchiesta istituita ad hoc - sotto la pressione della miseria, “contro antiche e secolari ingiustizie” ovvero contro i loro antichi oppressori indigeni, i latifondisti, i notabili, i voraci paglietta dei paesi, quel ceto che Carlo Levi avrebbe detto dei “Luigini”. Ed è questo il dato incontestabile ( il dato appunto dello scontro sociale tra dominanti e dominati, privilegiati ed esclusi, benestanti e poveracci, contadini e pastori contro latifondisti) che impone al giudizio la categoria interpretativa del conflitto sociale per spiegare l’intero dramma: quindi, una “guerra civile di classe” nello stesso orizzonte sociale del Mezzogiorno.
Ecco la definizione giusta, “guerra civile di classe”, storiograficamente esaustiva dei fatti in questione, per la cui ricostruzione, non essendone qui la sede adatta, rinvio ai libri sull’argomento, molto documentati, di Gaetano Cingari, Aldo De Jaco e Franco Molfese.
Qui basti fissare la linea interpretativa e comprendere con chiarezza quel che dall’odierna polemica antiunitaria, fomentata da una pur comprensibile reazione sudista al nordismo antiunitario della Lega Nord, viene sistematicamente ignorato: e cioè che i fronti contrapposti di quella “guerra civile di classe” non erano affatto, se non nella fenomenologia immediata, il Sud e il Nord (la resistenza borbonica da una parte e lo Stato unitario dall’altra), bensì, come si è già rilevato, il Sud degli oppressi contro il Sud degli oppressori.
E’ vero, nella fenomenologia immediata degli eventi, i “ribelli” si scontravano con i bersaglieri agli ordini di generali come il modenese Enrico Cialdini e il genovese Emilio Pallavicini (eredi ed emuli entrambi di quel Bixio al quale vanno intestate con infamia le esecuzioni somma-rie di Bronte, in Sicilia, nell’estate garibaldina del Sessanta). E la legalità dello Stato unitario appena fondato sarebbe stata presto convertita, con il dettato normativo della Legge Pica (1863), in una brutale espressione del monopolio statale della forza, a dispetto della proclamata natura liberale della cosiddetta “rivoluzione nazionale” (però imperiosamente sottratta all’emarginato e umiliato Garibaldi e consegnata alle regie teste di legno in divisa militare). E in virtù di tale brutale monopolio della forza, istituzionalizzato in nome dell’emergenza nazionale a fronte dei “cafoni” ribelli, i Cialdini e i Pallavicini conferirono un distinto valore patriottico (ottenendone persino onori e decorazioni) alle pratiche criminose e stragiste nelle quali fecero largamente consistere la loro azione militare. Di qui, le esecuzioni sommarie, le fucilazioni esemplari, i cannoneggiamenti e le devastazioni terroristiche, gli stupri dei regi soldati, gli incendi di interi villaggi e soprattutto gli eccidi (una sorta di consapevole “pulizia etnica” per liberare le campagne e i paesi da quegli sporchi, indecenti “cafoni”!): eccidi numerosi, non casuali, ma sistematici, strategici, a Casalduni, Campolattaro, Scurcola Marsicana, Pizzoli, Isernia, Montefalcione , compreso il più cruento di tutti, quello di Pontelandolfo il 14 agosto 1861(ben quattrocento innocenti ammazzati per una sadica esibizione di potenza in risposta all’uccisione di quaranta bersaglieri, un evento che a ragione potrebbe dirsi anticipatore della strage nazista delle Fosse Ardeatine). Negli anni, in quelli più cruenti, dal 1861 al 1866, il regio esercito impegnò fino a 105.000 soldati, ben due quinti delle forze armate del regno.
Ma per quanto i bersaglieri e i carabinieri fossero vistosamente impegnati come artefici della repressione e aguzzini di stragi, invero ad aizzarli e, per così dire, a caricarne i fucili, erano immancabilmente i proprietari locali, i latifondisti, con il loro seguito di “Luigini” spesso trasformatisi da filoborbonici in filosavoiardi (un re, per loro, valeva un altro, a condizione che i privi-legi restassero intoccabili!).
Di contro, i capi delle bande ribelli – i vari Chirichigno, Fasano, Mittica, Caruso, Romano e, tra loro, e certamente superiore per intelligenza tattica e qualità umane, il più noto Carmine Donatelli Crocco di Rionero Volture A alla truffa di una “rivoluzione politica” (sedicente liberale) che si stava risolvendo nella stipulazione di un factum scelerum tra i potenti del Sud con i potenti del Nord, opponevano la forza elementare e talvolta selvaggia di un loro risorgimento popolare (se proprio si vuole, un “risorgimento cafone”, nel senso di antiborghese), ovvero l’intuizione di una “rivoluzione sociale”, quella stessa che Garibaldi aveva vanamente e incoerentemente acceso nel fatale 1860, idonea ad abbattere privilegi, a far rapida giustizia dei torti subiti dai poveri, ad impedire che i “soliti noti” si accaparrassero le terre comunali espellendo i contadini, ad avviare un processo di liberazione da antiche oppressioni, nella direzione di una riforma agraria di cui molto vago era ancora il concetto ma profonda l’istanza.
Non a caso Carmine Crocco veniva dall’esercito dei volontari garibaldini, l’esercito nel quale, appena pochi mesi prima di diventar “brigante”, si era distinto per fierezza e coraggio, combattendo il Borbone. Certo, non pochi tra i ribelli erano di una qualità molto diversa: ora semplici renitenti alla leva datisi alla macchia per sfuggire ad un servizio militare obbligatorio che incombeva come una minaccia di frantumazione e di più grave miseria soprattutto sul tessuto organico delle famiglie contadine; ora poveracci sospinti dal sogno di un improvvido avventurismo; ora, non di rado, latitanti pericolosi, delinquenti comuni sfuggiti alle carceri; qualche volta degli ingenui nostalgici del passato borbonico lanciati nella mischia da occhiuti reazionari e clericali che sfruttavano la paura delle novità, il panico per una modernità che si paventava sconvolgente per la religione, per le buone costumanze e per la castità delle donne, e lanciavano anatemi sui “senza Dio” scomunicati dal papa. Ma, a parte i nostalgici e i loro interessati mestatori, la forza di massa di quella rivolta definita a torto “brigantesca” era animata da un fondamentale istinto rivoluzionario che era l’esatto contrario di una tensione reazionaria e filo borbonica (a suo modo era piuttosto, appunto, l’espansione social-popolare del messaggio garibaldino).
Lo spodestato Francesco II con i suoi scriteriati consiglieri si illuse, all’inizio, nel 1861, di poterne fare una Vandea per riconquistare il regno come era accaduto a suo nonno Ferdinando per merito delle milizie sanfediste del cardinale Ruffo. La verifica dell’illusione la ebbe con il clamoroso insuccesso nel quale si spense rapidamente il tentativo di un suo emissario, un generale catalano, il carlista José Borjes, di unire i ribelli in un sorta di esercito partigiano borbonico. Non solo Borjes non riuscì nell’intento, ma dovette verificare l’enorme distanza della sua ipotesi vandeana dalle vocazioni e dal sentire dei ribelli: loro, i ribelli, alla proposta di lottare per restaurare il Borbone fecero, come si dice, orecchio da mercante. Quel Borjes, abbandonato dal Crocco, e poco dopo, nel dicembre del 1861, catturato dai bersaglieri del maggiore Enrico Franchini e poi passato per le armi a Tagliacozzo, dovette prendere atto del suo fallimento, senza mai capire che a gente in lotta per la giustizia, cioè per il pane e per la terra, per la libertà dal bisogno, non si poteva certo offrire quale panacea soltanto un re, e non certo il re di una dinastia che da sempre era stata garante dei proprietari, dei “galantuomini”, dei voracissimi “Luigini”. Proprio il precoce fallimento del tentativo vandeano operato, con Borjes, da Francesco II è da assumersi in sede storica come la prova provata di quanto si è qui già scritto in apertura e giova ripetere in conclusione: il cosiddetto brigantaggio meridionale, nella sua verità, fu una “guerra civile di classe”.
Certo, una guerra che non avrebbe potuto non concludersi con la sconfitta della parte che l’aveva intrapresa sotto la spinta di un antico conflitto sociale esploso con le nuove contraddizioni aperte dal garibaldinismo e continuata con una tanto confusa quanto disperata sfida alla legalità dei padroni accasati nel regno sabaudo. I ribelli subirono il lento e doloroso esaurimento delle loro forze, rese sempre più esauste dall’avanzare di una dura repressione. E altra sorte per loro non sarebbe stata concretamente ipotizzabile. Per quanto decisi e tenaci nella ribellione, erano infatti originariamente deboli e perdenti perché confinati nell’elementare dimensione socio-esistenziale della loro ribellione e incapaci di ideazione politica, privi com’erano di un’avanguardia, di una guida, di un partito idoneo a dare alla lotta un progetto organico ed una strategia. Però, a ben vedere, non vinsero i bersaglieri; non vinse il crudele Cialdini, non vinse il vanesio razzista nordista Pallavicini. Vinse la “razza padrona” nazionale ovunque fosse dislocata, ramificata e dominante; vinsero i latifondisti, i notabili, i “Luigini” e di essi un desolato Mezzogiorno avrebbe dovuto sopportare la schiacciante egemonia che dura tuttora, dotata di una sua conforme societas politica e alimentata da una cosiddetta “società civile” avvelenata da corruzione e clientelismo, percorsa da mille subalterne complicità tra opportunismo e rassegnazione: una ferrea egemonia sostenuta e corroborata dalle mafie.
Sarebbe fuori luogo e certamente un’evidente violazione della verità storica fare oggi dell’intera vicenda un argomento sudista a sostegno di una querelle antiunitaria che muova (come sta diventando di moda sull’onda di un certo incolto e strumentale revisionismo storiografico) da un sommario processo al Risorgimento. Semmai è un argomento sul quale occorre ancora riflettere, sulla scia di Antonio Gramsci e di Piero Gobetti, per comprendere a fondo i limiti e le distorsioni di una storia unitaria a lungo segnata dall’autodifesa classista dei ceti privilegiati del Nord e del Sud, alleati e disposti ad avvalersi di ogni mezzo (compresa la violenza di Stato) per contrastare e bloccare il più possibile i movimenti popolari di riscatto e di liberazione.

NOTA

(1) - Piuttosto diverso fu il caso della Sicilia dove un brigantaggio endemico (talvolta con quei caratteri effettivamente “briganteschi”, cioè di elementare libertarismo e giustizialismo popolari, bene individuati dalla classica analisi interpretazione di Eric Hobsbawm, spesso tentativo di fuga dei poveri da una “legalità” vissuta come ingiusta ed oppressiva e ricerca di un improbabile riscatto sociale mediante uno spregiudicato avventurismo criminale), incentivato dalla reazione di massa all’introduzione del servizio militare obbligatorio, fu largamente strumentalizzato dalla mafia (in specie dall’”alta mafia” dei baroni e dei gabelloti del latifondo), divenendo così il “braccio armato” di una sorda e prolungata opposizione dei ceti dominanti siciliani ai tentativi modernizzatori dello Stato liberale. Si tratta di una vicenda registrata con accuratezza da Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino nella loro celebre inchiesta del 1876 e studiata da chi scrive nel suo fortunato saggio su “L’Opposizione mafiosa” (I ed. Palermo, Flaccovio, 1964).
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