VILLE DI BAGHERIA E DINTORNI - fotografie di Ezio Ferreri: in esse staremmo invano a cercare quella che Walter Benjamin, riferendosi «all’andatura della gente, al loro contegno nel frammento di secondo in cui si allunga il passo», chiama «la natura diversa da quella che parla all’occhio»: nelle fotografie di Ferreri, in queste fotografie, non vi sono persone e, quindi, non vi sono frammenti di secondo vibranti di folgorazioni su un gesto, su un’espressione fermati per sempre dall’obiettivo e offerto alla intelligenza dell’inconsueto nel consueto.
Le ville di Bagheria sono uguali e ferme, prima e dopo essere state riprese dall’obiettivo fotografico, non hanno vita e, pertanto, non possono essere sorprese in un momento particolarmente significativo del loro esistere nel tempo.
Eppure ugualmente le fotografie di Ezio Ferreri svolgono la funzione scrutatrice di un qualcosa che ci sfuggiva, ugualmente riescono a illuminarci proponendoci una visione inedita e personale di questi complessi significanti della cultura della nobiltà siciliana tra il Sei e il Settecento: e ciò nel momento in cui creano delle relazioni.
L’obiettivo non fa altro che indovinare e selezionare relazioni, tra particolari (imprevedibili) in una stessa foto, tra oggetti o aspetti (apparentemente estranei) in foto diverse. La relazione indovinata evidenziata proposta, così, diventa il vero soggetto di questo tipo di fotografia. E grazie a essa le cose vengono sottratte alla loro gelida inespressiva uniforme oggettività per essere animate dal gioco movimentato dei punti di osservazione.
In base a questa ermeneutica delle relazioni, alla stessa stregua e nello stesso contesto di tutte le ville, viene trattata anche l’«altra» villa, quella cioè del principe di Palagonia, detta «dei mostri».
Sulla «Villa dei mostri» il giudizio dei visitatori stranieri ha coinciso con quello degli osservatori nostrani: il disgusto di quelli è stato condiviso dall’opinione di questi, vedi Goethe condiviso da Pitrè.
Anche se tra i viaggiatori non è mancato chi come il De Borch si sia dichiarato stupito dal fatto che «idee così barocche possano quadrare con uno spirito illuminato, un giudizio retto, ampie conoscenze e cuore eccellente. Perchè, bisogna convenirne, queste qualità si trovano tutte nel principe. Un giorno, in visita dal Vicerè, trovandomi accanto a lui senza conoscerlo ci mettemmo a conversare. Rimasi veramente stupito dalla sua cultura e dal modo giusto e preciso come ragionava di ogni cosa. Incantato della conoscenza che avevo fatto, mi informai del nome del personaggio, caddi dalle nuvole quando mi dissero che era il principe di Palagonia».
Cioè: esattamente quello stesso principe di cui Patrick Brydone aveva scritto «è inconcepibile che non sia rinchiuso in un manicomio già da un pezzo»; di cui Henry Swinburne scriveva «ero stupito che il proprietario non fosse già stato mille volte chiuso in manicomio»; di cui Johann Heinrich Bartels avrebbe scritto «simile egli stesso a uno dei suoi mostri»; e Thomas Bingham Richards «Il defunto principe, che era mezzo scemo...».
Sulla scia di simili giudizi (e non soltanto sulla scia di essi) della villa del principe di Palagonia si è fatto un luogo d’elezione del negativo, un inconfutabile ghetto della follia per meglio delimitare e preservare, se non proprio il paradiso della ragione, almeno la certezza della normalità.
Ci sovviene, a proposito, una pagina di Brancati in cui si parla del manicomio di Agrigento e dove è leggibile la stessa volontà collettiva di concentrare la follia in un punto topografico preciso per continuare a vivere tranquilli nella consapevolezza di esserne al di fuori.
«Ma pochi sanno» scrive Brancati «che, in un’altura, è costruito il più grande manicomio della Sicilia, uno dei più grandi d’Europa. Un giorno questo manicomio accoglieva tutti indistintamente i pazzi della mia Isola...».
Potrebbe apparire strano un simile irresistibile impulso a recintare tutto quanto non sia riconducibile a rassicuranti schemi predeterminati (fenomeno a tal punto costante da potersi dire istituzionalizzato) in una terra dove, al contrario, è stato sempre arduo riuscire a discernere la normalità dalla follia e viceversa. Potrebbe apparire strano, ma in effetti strano non è, perchè tale impulso denuncia una normalità tarlata da un ossessivo bisogno di esorcismo, una normalità cioè che non cessa di inquietarsi e di interrogarsi circa la propria autenticità, e che, in ultima analisi, sa che nessuna «villa», nessun manicomio, nessun recinto potranno immunizzarla del tutto dai mostri che si porta dietro.
Le fotografie di Ferreri, nella loro deliberata e meditata ricerca di relazioni di cui parlavamo all’inizio, dislocano i mostri del principe Ferdinando Francesco Gravina in tutte le rimanenti ville sorgenti in Bagheria, o, se si vuole, aprono i battenti di tutte queste ville ai mostri di quel principe in parte «pazzo» e in parte «spirito illuminato» (dunque, uomo di contraddizione).
Perciò, queste relazioni fotografiche risultano illuminanti, almeno per noi a cui piace leggerle nella chiave di un lavoro artistico che vincendo le meduse della rimozione mette intelligentemente in discussione la falsa e inattendibile razionalità che tutte le ville patrizie vorrebbero o potrebbero trasmetterci.
Diego Guadagnino
Le ville di Bagheria sono uguali e ferme, prima e dopo essere state riprese dall’obiettivo fotografico, non hanno vita e, pertanto, non possono essere sorprese in un momento particolarmente significativo del loro esistere nel tempo.
Eppure ugualmente le fotografie di Ezio Ferreri svolgono la funzione scrutatrice di un qualcosa che ci sfuggiva, ugualmente riescono a illuminarci proponendoci una visione inedita e personale di questi complessi significanti della cultura della nobiltà siciliana tra il Sei e il Settecento: e ciò nel momento in cui creano delle relazioni.
L’obiettivo non fa altro che indovinare e selezionare relazioni, tra particolari (imprevedibili) in una stessa foto, tra oggetti o aspetti (apparentemente estranei) in foto diverse. La relazione indovinata evidenziata proposta, così, diventa il vero soggetto di questo tipo di fotografia. E grazie a essa le cose vengono sottratte alla loro gelida inespressiva uniforme oggettività per essere animate dal gioco movimentato dei punti di osservazione.
In base a questa ermeneutica delle relazioni, alla stessa stregua e nello stesso contesto di tutte le ville, viene trattata anche l’«altra» villa, quella cioè del principe di Palagonia, detta «dei mostri».
Sulla «Villa dei mostri» il giudizio dei visitatori stranieri ha coinciso con quello degli osservatori nostrani: il disgusto di quelli è stato condiviso dall’opinione di questi, vedi Goethe condiviso da Pitrè.
Anche se tra i viaggiatori non è mancato chi come il De Borch si sia dichiarato stupito dal fatto che «idee così barocche possano quadrare con uno spirito illuminato, un giudizio retto, ampie conoscenze e cuore eccellente. Perchè, bisogna convenirne, queste qualità si trovano tutte nel principe. Un giorno, in visita dal Vicerè, trovandomi accanto a lui senza conoscerlo ci mettemmo a conversare. Rimasi veramente stupito dalla sua cultura e dal modo giusto e preciso come ragionava di ogni cosa. Incantato della conoscenza che avevo fatto, mi informai del nome del personaggio, caddi dalle nuvole quando mi dissero che era il principe di Palagonia».
Cioè: esattamente quello stesso principe di cui Patrick Brydone aveva scritto «è inconcepibile che non sia rinchiuso in un manicomio già da un pezzo»; di cui Henry Swinburne scriveva «ero stupito che il proprietario non fosse già stato mille volte chiuso in manicomio»; di cui Johann Heinrich Bartels avrebbe scritto «simile egli stesso a uno dei suoi mostri»; e Thomas Bingham Richards «Il defunto principe, che era mezzo scemo...».
Sulla scia di simili giudizi (e non soltanto sulla scia di essi) della villa del principe di Palagonia si è fatto un luogo d’elezione del negativo, un inconfutabile ghetto della follia per meglio delimitare e preservare, se non proprio il paradiso della ragione, almeno la certezza della normalità.
Ci sovviene, a proposito, una pagina di Brancati in cui si parla del manicomio di Agrigento e dove è leggibile la stessa volontà collettiva di concentrare la follia in un punto topografico preciso per continuare a vivere tranquilli nella consapevolezza di esserne al di fuori.
«Ma pochi sanno» scrive Brancati «che, in un’altura, è costruito il più grande manicomio della Sicilia, uno dei più grandi d’Europa. Un giorno questo manicomio accoglieva tutti indistintamente i pazzi della mia Isola...».
Potrebbe apparire strano un simile irresistibile impulso a recintare tutto quanto non sia riconducibile a rassicuranti schemi predeterminati (fenomeno a tal punto costante da potersi dire istituzionalizzato) in una terra dove, al contrario, è stato sempre arduo riuscire a discernere la normalità dalla follia e viceversa. Potrebbe apparire strano, ma in effetti strano non è, perchè tale impulso denuncia una normalità tarlata da un ossessivo bisogno di esorcismo, una normalità cioè che non cessa di inquietarsi e di interrogarsi circa la propria autenticità, e che, in ultima analisi, sa che nessuna «villa», nessun manicomio, nessun recinto potranno immunizzarla del tutto dai mostri che si porta dietro.
Le fotografie di Ferreri, nella loro deliberata e meditata ricerca di relazioni di cui parlavamo all’inizio, dislocano i mostri del principe Ferdinando Francesco Gravina in tutte le rimanenti ville sorgenti in Bagheria, o, se si vuole, aprono i battenti di tutte queste ville ai mostri di quel principe in parte «pazzo» e in parte «spirito illuminato» (dunque, uomo di contraddizione).
Perciò, queste relazioni fotografiche risultano illuminanti, almeno per noi a cui piace leggerle nella chiave di un lavoro artistico che vincendo le meduse della rimozione mette intelligentemente in discussione la falsa e inattendibile razionalità che tutte le ville patrizie vorrebbero o potrebbero trasmetterci.
Diego Guadagnino
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