Nel 1944, all'indomani dello sbarco alleato in Sicilia, Domenico Messina ha ventotto anni, si iscrive al PCI e partecipa all’occupazione delle terre. È un bracciante la cui coscienza di classe e l’innato carisma ne fanno subito un capo, un leggendario dirigente di quel vasto movimento che fece parlare di “contadinismo”.
Nato da una famiglia povera, al punto da non avere la possibilità materiale di frequentare la scuola oltre la terza elementare, a nove anni aveva dovuto seguire il padre a zappare nei campi, "da scuro a scuro", come allora si diceva per significare che la giornata lavorativa durava quanto la luce del giorno permetteva.
In tali condizioni di precoce quanto duro apprendistato alla vita, Domenico comincia a preparare il suo futuro di dirigente contadino, guardando uomini e cose del mondo circostante con l'occhio indagatore e caparbio di un’intelligenza che cresce e si fortifica nel ragionamento, osservando quotidianamente l'ingiustizia e le storture che governano i rapporti tra le classi.
Quella percezione del vivere, acuita dalla negazione di ogni forma di protesta democratica, non poteva che far più nettamente risaltare la menzogna del fascismo, tessuta di frasi altisonanti al solo scopo di distogliere l'attenzione dallo stato di miseria in cui vivevano i ceti meno abbienti. Da questo contrasto tra parola e realtà, vissuto dalla parte della realtà più inaccettabile, nasce la coscienza della necessità di far aderire le parole alle cose, necessità che troviamo teorizzata e praticata in questo "Quaderno dei comizi", che i suoi eredi hanno consegnato, tra le altre cose, a Salvatore Vaiana per la stesura della biografia.
È beninteso che, più che di comizi veri e propri, si tratta di appunti, di tracce finalizzate all'avvio di discorsi da svolgere a braccio o alla tenuta del loro filo logico; tuttavia, pur nella loro forma stringata ed essenziale, essi ci tornano preziosamente utili nella ricostruzione di un modo di pensare e di comunicare rimasti legati a quella concretezza contadina che fu sempre l'attributo dominante nello stile politico di Messina.
Nell'incipit di un comizio tenuto nel 1955 ad Agrigento, nel corso della campagna elettorale per le elezioni regionali, dice: «Per la 2a volta che io ho il grante onore di parlare al capoluoco di provincia; e ripeto grante onore, dato alla mia capacità curturale e sopra tutto al mio titolo di studio della 3a elementare e, agiunco ancora, la mia professione di contadino (vitrano) o meglio dire bragiante agricolo (che detto alla l’uso della nostra dieletto della nostra provincia, iuernataru cu la sacchina incuotru). Dico soprattutto fortuna e progresso per noi contadini di potere dire anche la nostra parola nelle lotte elettorale, il nostro contributo nella campagna elettorale e di parole povere pogiati sulla realtà e sopra tutto sulla verità. Verità è nella vita, nella fatica, nel trattamento che tutti i giorni vediamo, sentiamo e proviamo. Mentre per noi è un progresso, per l’avversari politici è regresso, pagura e pericolo, che si vedono franare la terra di sotto i piedi. E questa frana, amici avversari, non la potete fermare mai. Colle menzogne, colle prepotenze, colle minacce riuscite a frenarla, ma dopo siete travolti e rimaneti investiti. E voglio dirlo come lo diciamo tutti i giorni noi contadine quanto siamo in campagna in terre argillose (cugno crudo e nnutili, ca ni sti frani chiandammu […] la frana sinnicala sempri e sdirradica tutti cosi».
Un poeta algerino, esprimendosi in lingua francese, diceva «il colonialismo ha voluto che io avessi un difetto di lingua»; nel brano di Domenico Messina non solo non c'è un "difetto di lingua", ma neanche di "cultura". Egli con una lingua di contadino arrivato alla terza elementare orgogliosamente rivendica la propria identità di classe come condizione e soprattutto come cultura; ricorre a un apparato di metafore attinte all'esperienza del lavoro agricolo; individua nell'uso convinto della parola l'insostituibile momento del riscatto materiale e psicologico.
Prima che don Lorenzo Milani, assieme ai ragazzi della scuola di Barbiana, applicasse e diffondesse la sua rivoluzionaria intuizione didattica sulla appropriazione e sull'uso politico del linguaggio, Domenico Messina, parlando nelle piazze da contadino ai contadini, mostra di avere chiarissima cognizione dell'importanza delle parole in un percorso di libertà. E attraverso i suoi appunti, noi non possiamo fare a meno di ammirare con quanta semplicità l'autodidatta Messina vede il rapporto tra parola ed esperienza vissuta, tra la persuasione e la retorica.
Contrariamente a quanto avviene nei virtuosi dell'arte oratoria in cui la parola, seppur con grande effetto su chi ascolta, tende a una sua autonoma sussistenza, nel caso del nostro contadino dirigente le parole sono rigorosamente poggiate «sulla realtà e soprattutto sulla verità», e per verità intende la vita, la fatica, il «trattamento che tutti i giorni vediamo, sentiamo e proviamo». E quando dice «il nostro contributo nella campagna elettorale è di parole povere» è evidente che non allude a un depauperamento della parola fino al venir meno della sua funzione di condensazione del pensiero, ma, al contrario, stigmatizza un prevalere della chiarezza di concetto sull'uso ornamentale o meramente suggestivo della parola; afferma un dominio del contenuto sulla forma.
Mi diceva un giorno il nipote, Salvatore Messina, che negli ultimi anni della sua vita si stancava facilmente a leggere e, confessando tale debolezza, aggiungeva: «Anche perché non ho a chi raccontare quello che leggo». Giustificazione, questa, che se per lui poteva essere una malinconica constatazione del declino, a noi evidenzia come e quanto per i suoi sentimenti la parola e la cultura vivessero nel territorio della socializzazione.
Personalmente l'ho conosciuto quando ormai da tempo era finita la stagione dell'occupazione delle terre che lo aveva visto protagonista di primo piano, e, già avanti negli anni, dirigeva la Cantina sociale di cui era stato assieme ad altri compagni fondatore. Venendo a contatto con la sua persona, si sentiva subito che il suo relazionarsi agli altri nasceva dal duplice desiderio di capire e di comunicare, e lo si notava da quell'attenzione discreta e concentrata che prestava all'interlocutore, lo si leggeva in quello sguardo lontano e penetrante che conferiva al volto carico di rughe la calma, sorridente espressione di un vecchio filosofo orientale.
Sapeva stare ad ascoltare, anche a lungo, e, dopo avere ascoltato, limitava il suo parlare a poche frasi, a qualche aneddoto della sua vita passata, che però finivano sempre per arricchire il dialogo con la esaustiva pregnanza di un discorso. Nutriva sincero rispetto per le persone in possesso di titolo di studio, e spesso nei comizi lascia trasparire questa sua considerazione verso la cultura con il rimarcare come a lui non fosse stato possibile proseguire negli studi. «Compagni e compagni amici tutti, democristiani lavoratori in buona fede», comiziava nel 1953, «questa sera in questa piazza di Campobello non sentireti la parola di un avvocato o professore ma di un contadino, un lavoratore della terra con la qualifica specifica di bracianti agricolo. Chiederò scusi a tutti se il mio discorso non potrà essere detto in italiano, tante volte mi dovrò spiegare siciliano e spesso volte neanche siciliano ma in dialetto, alla paesana. Credete[mi] non è mia colpa, ma è colpa della società passata e presenti che il mio titolo di studio è troppo alto, la 3 Elementare, e due anni orsono ho dato l’esame nella scuola Popolare e mi diedero un titolo di studio della 5 elementare. Comunche farò del mio meglio a potermi fare capire».
Il rispetto e la considerazione per la cultura, tuttavia, non diventarono mai soggezione al cospetto di lauree o diplomi, restando sempre garbate espressioni di un rapporto che si manteneva sul piano di una sostanziale parità.
Durante la sindacatura dell'avvocato Giuseppe Signorino, compresa tra il 1952 e il 1956, in un comizio in piazza IV Novembre, allora luogo deputato allo scambio di reciproche e pungenti critiche, anche (e a volte soprattutto) personali, Domenico Messina disapprovò l'andamento del bilancio comunale. Qualche giorno dopo, il Sindaco, parlando dallo stesso podio, ironizzò sul contadino che dissertava pubblicamente di bilancio: «Che ne vuoi capire di bilancio tu, povero contadino, quando non ne capisco neanche io che sono laureato!» Gli rispose a sua volta Messina che se lui, laureato, non capiva niente di bilancio, peggio per lui e per la sua laurea, e che, ad ogni buon conto, da quel contadino che era avrebbe provato a spiegargliene il funzionamento. Tirato fuori dalla tasca un tronchetto di ferla stagionata, con un temperino, alla maniera di un massaro nell'esercizio delle sue funzioni contabili, cominciò ad incidervi sopra dei segni + per le entrate e dei segni - per le uscite. «Eccoti spiegato come funziona un bilancio» concluse, «quando i più sopravanzano i meno vuol dire che è attivo, quando succede il contrario vuol dire che è passivo». Questo episodio con le sue battute di vita politica locale, finora affidato all'oralità, denotando i limiti del "Quaderno" che è all'origine di queste note, induce a ritenere che la parte più creativa, più palpitante d'umorismo e d'ironia dei suoi comizi fosse quella che, purtroppo, non è scritta.
Mi raccontò, in una delle tante volte che andai a trovarlo alla Cantina sociale di contrada "Aquilata", che nei primi anni cinquanta si era recato a Castrofilippo per tenervi un comizio. Alla fine del comizio, i compagni cominciarono a complimentarsi e a festeggiarlo, come allora si usava con gli oratori, specialmente se venivano da fuori come nel suo caso. Tali entusiasmi gli fecero perdere l'autobus per Canicattì. Quando arrivò alla fermata, l'autobus era già passato. S'incamminò a piedi verso Canicattì, mentre sopraggiungeva il buio. Dallo stradale notò in aperta campagna un'aia di paglia di fave. Decise di dormire lì e tornare al suo paese l'indomani mattina con il primo autobus proveniente da Agrigento. Stanco, si addormentò sulla paglia.
Ora che dorme il sonno dei giusti, ci piace ricordarlo così, col viso rivolto alle stelle, nella limpida notte di giugno, dopo aver tenuto un comizio d'amore ai suoi contadini.
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