Gaetano Lo Manto, il pittore degli insetti, «vede» questi esseri minuscoli e multiformi, alterati dalla sua fantasia ora volteggianti sull’umanità depredata dall’alienazione, ora abbarbicati sul mondo invaso dalla devastazione ecologica. È il suo modo di resistere e sopravvivere nella speranza di trovare un posto dove poter collocare una possibile esistenza solare, pulita e lontana dalla loro macabra presenza.
Giunto da Palermo, mi si presentò a casa in un pomeriggio di febbraio. Si trovava per la seconda volta a Canicattì, famosa per il colore della sua uva e per l’invadente rapidità della sua ascesa economica.
Gli chiesi se cercava un soggetto per la sua ossessione o un posto per la sua speranza; spiegandogli subito che, nel primo caso, avrebbe avuto inesauribile fonte d’ispirazione nelle campagne con le zone archeologiche sventrate dalle ruspe, con le colline (appartenute a dimenticate leggende) sfiancate o appiattite, con la sistematica distruzione della varietà degli alberi, nel secondo caso, io non avrei saputo suggerire una concreta risposta al suo desiderio.
In macchina uscimmo alla ricerca di un soggetto che ancora una volta giustificasse la sua ossessione o di un residuo d’identità (perduta) della vecchia Canicattì contadina.
Per caso arriviamo a Villa «Firriato» («per caso» perché nessuna segnaletica gialla la suggerisce al forestiero che vuole apprezzare i luoghi più meritevoli del circondario). Vi si giunge chiamati da due torri sottili come guglie che sfuggendo all’intrico oppressivo della vegetazione circostante, segnalano da lontano l’esistena della Villa.
Il cancello principale è chiuso; la ruggine che lo consuma e l’erba che vi cresce sulla soglia dicono tutta l’annosa normalità di quella chiusura, mentre un cielo basso di nuvole rigonfie collabora sinistramente col silenzio di abbandono che sovrasta su tutto.
Ma, appena entrati, attraverso un passaggio secondario, lo scarto tra l’esterno e l’interno è tale che subito ci sentiamo come sbalestrati in una dimensione assolutamente fantastica.
La Villa ci appare all’improvviso come un tempio di antiche sconosciute divinità, abbandonato dagli uomini e protetto da una maestosa esuberanza vegetale. Calpestando foglie morte di innumerevoli stagioni, ci inoltriamo tra siepi di mirto, per oscure gallerie di gelsomino, sotto volte di pini primordiali, estasiati dalle impressioni colte attraverso ogni possibile prospettiva: le pietre grigie intagliate affioranti tra i vuoti irregolari dell’edera, una fontana morta con due cipressi ai lati eletti a sentinelle… tutto concorre a purificare il mio amico dalla sua decennale ossessione degli insetti.
E allora, assieme, ci mettiamo a ridestare dal sonno di quegli angoli le immagini di un passato ipotetico splendore, ricostruendo, come l’archeologo d’ingegno, i gesti, le movenze e i piaceri della quotidianità aristocratica. Ma, prima di accorgerci che in realtà stiamo sciorinando personalissimi fantasmi letterari (vergognosamente decadenti e, forse, irrimediabilmente estranei al reale passato della Villa) ci si presenta un contadino, inaspettato e diffidente. Ci chiede chi siamo, cosa cerchiamo.
Rassicurato circa le nostre intenzioni (puramente estetiche e contemplative), col tono cordiale della scusa, c’informa che la Villa, essendo disabitata, è meta frequente di sciacalli che la saccheggiano portando via tutto quanto è asportabile; e, intanto, ci indica vetri rotti, porte sfondate, sedili divelti, finestre scardinate... «I padroni attuali la ignorano, non ci vengono mai» dice, e ai nostri occhi, al nostro sentire gli effetti del saccheggio e la lebbra dell’incuria assumono i connotati di una insensata vendetta esercitata sul «patrimonio artistico» da parte di una classe sconfitta, più che dalla storia e dalle riforme, dalla propria vocazione all’inettitudine.
Il contadino continua a parlare e concreto (come solo i contadini sanno esserlo). Ora, la Villa non è più quell’oasi d’innocenza che avevamo illusoriamente creduto di scoprire: anch’essa appartiene al regno degli insetti.
Diego Guadagnino
Giunto da Palermo, mi si presentò a casa in un pomeriggio di febbraio. Si trovava per la seconda volta a Canicattì, famosa per il colore della sua uva e per l’invadente rapidità della sua ascesa economica.
Gli chiesi se cercava un soggetto per la sua ossessione o un posto per la sua speranza; spiegandogli subito che, nel primo caso, avrebbe avuto inesauribile fonte d’ispirazione nelle campagne con le zone archeologiche sventrate dalle ruspe, con le colline (appartenute a dimenticate leggende) sfiancate o appiattite, con la sistematica distruzione della varietà degli alberi, nel secondo caso, io non avrei saputo suggerire una concreta risposta al suo desiderio.
In macchina uscimmo alla ricerca di un soggetto che ancora una volta giustificasse la sua ossessione o di un residuo d’identità (perduta) della vecchia Canicattì contadina.
Per caso arriviamo a Villa «Firriato» («per caso» perché nessuna segnaletica gialla la suggerisce al forestiero che vuole apprezzare i luoghi più meritevoli del circondario). Vi si giunge chiamati da due torri sottili come guglie che sfuggendo all’intrico oppressivo della vegetazione circostante, segnalano da lontano l’esistena della Villa.
Il cancello principale è chiuso; la ruggine che lo consuma e l’erba che vi cresce sulla soglia dicono tutta l’annosa normalità di quella chiusura, mentre un cielo basso di nuvole rigonfie collabora sinistramente col silenzio di abbandono che sovrasta su tutto.
Ma, appena entrati, attraverso un passaggio secondario, lo scarto tra l’esterno e l’interno è tale che subito ci sentiamo come sbalestrati in una dimensione assolutamente fantastica.
La Villa ci appare all’improvviso come un tempio di antiche sconosciute divinità, abbandonato dagli uomini e protetto da una maestosa esuberanza vegetale. Calpestando foglie morte di innumerevoli stagioni, ci inoltriamo tra siepi di mirto, per oscure gallerie di gelsomino, sotto volte di pini primordiali, estasiati dalle impressioni colte attraverso ogni possibile prospettiva: le pietre grigie intagliate affioranti tra i vuoti irregolari dell’edera, una fontana morta con due cipressi ai lati eletti a sentinelle… tutto concorre a purificare il mio amico dalla sua decennale ossessione degli insetti.
E allora, assieme, ci mettiamo a ridestare dal sonno di quegli angoli le immagini di un passato ipotetico splendore, ricostruendo, come l’archeologo d’ingegno, i gesti, le movenze e i piaceri della quotidianità aristocratica. Ma, prima di accorgerci che in realtà stiamo sciorinando personalissimi fantasmi letterari (vergognosamente decadenti e, forse, irrimediabilmente estranei al reale passato della Villa) ci si presenta un contadino, inaspettato e diffidente. Ci chiede chi siamo, cosa cerchiamo.
Rassicurato circa le nostre intenzioni (puramente estetiche e contemplative), col tono cordiale della scusa, c’informa che la Villa, essendo disabitata, è meta frequente di sciacalli che la saccheggiano portando via tutto quanto è asportabile; e, intanto, ci indica vetri rotti, porte sfondate, sedili divelti, finestre scardinate... «I padroni attuali la ignorano, non ci vengono mai» dice, e ai nostri occhi, al nostro sentire gli effetti del saccheggio e la lebbra dell’incuria assumono i connotati di una insensata vendetta esercitata sul «patrimonio artistico» da parte di una classe sconfitta, più che dalla storia e dalle riforme, dalla propria vocazione all’inettitudine.
Il contadino continua a parlare e concreto (come solo i contadini sanno esserlo). Ora, la Villa non è più quell’oasi d’innocenza che avevamo illusoriamente creduto di scoprire: anch’essa appartiene al regno degli insetti.
Diego Guadagnino
Nessun commento:
Posta un commento