L’assemblaggio delle parole “vita” e “volti”, nel titolo La vita i volti…, che Guido Cicero ha voluto dare al suo lavoro di fotografo, sollecita riflessioni sul personalissimo rapporto che abbiamo con la nostra immagine.
Quando la macchina fotografica non era ancora un utensile tra i tanti delle nostre abitudini e della nostra casa, il fotografo era un artigiano che veniva chiamato o da cui ci si recava per solennizzare grandi occasioni o per scattare una foto che costituisse traccia visibile di un periodo anagrafico della vita di ognuno. E quel fotografo è una figura che si lascia ricordare per la paziente dedizione investita, prima del fatidico scatto, nel costruire i particolari della posa e nel suggerire l’espressione da assumere a vantaggio della bontà finale del suo prodotto, tanto più soddisfacente per il cliente quanto più riusciva di rassicurante conferma alla concettuale normalità del suo essere nel mondo.
Oggi non c’è dilettante, maldestro o principiante, che non cerchi di cogliere attraverso la sorpresa dello scatto la spontaneità del soggetto, il gesto, l’espressione che salgono dal suo essere reale, per fissarli in un’ immagine che denuda più di quanto non decanti. Ed ecco l’operare della macchina farsi indiscrezione, indiscrezione fotografica che, dicendo tutto, senza pudore e senza accorgimenti, ci mette di fronte a un’immagine di noi stessi dalla quale ci sentiamo traditi quando non si fa complice della nostra vanità o della nostra debolezza. La disconferma dell’immagine personale che ognuno ha di se stesso: nasce da ciò, forse, il terrore magico di taluni popoli, di fronte all’obiettivo, di venire derubati della propria identità; e, sicuramente, l’irresistibile attrazione di chi invece vuol vedere, col disincanto della conoscenza, il proprio corpo e la propria anima, facendo della macchina fotografica uno strumento operativo del socratico “conosci te stesso”.
E tutto ciò, tutta questa difficoltà nella caccia di se stessi, evidenzia come la vita, essendo anche cultura, ci imponga inevitabilmente la finzione, la maschera che tende, poi, a dileguarsi dal volto dei vecchi.
La bellezza di un volto vecchio è quella dell’uomo più vicino alla grazia e al mistero dell’essere: le trascorse tempeste della vita lo hanno spogliato da ogni voglia di finzione, lasciando affiorare quell’aura, impalpabile e vera, che lo riscatta dai connotati materiali della forma.
Quando la macchina fotografica non era ancora un utensile tra i tanti delle nostre abitudini e della nostra casa, il fotografo era un artigiano che veniva chiamato o da cui ci si recava per solennizzare grandi occasioni o per scattare una foto che costituisse traccia visibile di un periodo anagrafico della vita di ognuno. E quel fotografo è una figura che si lascia ricordare per la paziente dedizione investita, prima del fatidico scatto, nel costruire i particolari della posa e nel suggerire l’espressione da assumere a vantaggio della bontà finale del suo prodotto, tanto più soddisfacente per il cliente quanto più riusciva di rassicurante conferma alla concettuale normalità del suo essere nel mondo.
Oggi non c’è dilettante, maldestro o principiante, che non cerchi di cogliere attraverso la sorpresa dello scatto la spontaneità del soggetto, il gesto, l’espressione che salgono dal suo essere reale, per fissarli in un’ immagine che denuda più di quanto non decanti. Ed ecco l’operare della macchina farsi indiscrezione, indiscrezione fotografica che, dicendo tutto, senza pudore e senza accorgimenti, ci mette di fronte a un’immagine di noi stessi dalla quale ci sentiamo traditi quando non si fa complice della nostra vanità o della nostra debolezza. La disconferma dell’immagine personale che ognuno ha di se stesso: nasce da ciò, forse, il terrore magico di taluni popoli, di fronte all’obiettivo, di venire derubati della propria identità; e, sicuramente, l’irresistibile attrazione di chi invece vuol vedere, col disincanto della conoscenza, il proprio corpo e la propria anima, facendo della macchina fotografica uno strumento operativo del socratico “conosci te stesso”.
E tutto ciò, tutta questa difficoltà nella caccia di se stessi, evidenzia come la vita, essendo anche cultura, ci imponga inevitabilmente la finzione, la maschera che tende, poi, a dileguarsi dal volto dei vecchi.
La bellezza di un volto vecchio è quella dell’uomo più vicino alla grazia e al mistero dell’essere: le trascorse tempeste della vita lo hanno spogliato da ogni voglia di finzione, lasciando affiorare quell’aura, impalpabile e vera, che lo riscatta dai connotati materiali della forma.
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