DIEGO GUADAGNINO presenta Totò Pecoraro

 

DIEGO GUADAGNINO, "Un poeta nell'era dell'IA", in

TOTÒ PECORARO, Sensazioni, Emozioni e quarant'anni di pensieri,

Tipografia Lussografica, Caltanissetta, 2024
 

L’avvento dell’IA ha cambiato d’improvviso tante cose, compreso il fare poesia. Attraverso questa nuova conquista della tecnologia chiunque può, e in futuro sempre meglio potrà, comporre versi su qualsiasi tema. Ma l’IA, se può produrre versi, non può riprodurre l’anima che sta all’origine del poetare. Questa impossibilità, questo limite, per contrasto, rimarca con più forza che la poesia, quella autentica, è intimamente connessa a ciò che chiamiamo sentimento, anima, emozione. Ecco allora che la poesia, già ridotta a cenerentola dei generi letterari (forse perché inadatta a servire le leggi del profitto quanto le altre espressioni artistiche), d’improvviso e paradossalmente torna a essere ciò che è stata sin dal nascere della civiltà: insopprimibile bisogno di bellezza che incontra la parola.

    Sono pensieri che vengono alla mente nell’accostarsi alla silloge che Totò Pecoraro ha deciso, solo adesso, di dare alle stampe, tirando fuori dal cassetto componimenti che hanno accompagnato il percorso di una vita, dato che i più antichi risalgono a più di quarant’anni fa. Scritti sia in lingua che in dialetto, cronologicamente lontani tra loro, hanno però un comune denominatore, soggettivo e puntuale: quello di portare segnati non solo la data di nascita, ma spesso anche l’ora e il luogo in cui sono stati concepiti dal poeta. Non è un dettaglio trascurabile, e non lo è perché esprime una concezione della poesia come stato di grazia che ti coglie inaspettato e misterioso, soluzione di continuità temporale nel tedium vitae della normalità quotidiana, momento in cui l’emozione diventa valore facendosi parola. La silloge apre con Amo il vento; sotto il titolo leggiamo:

 

scritta davanti al “Tex Bar” di Gela, dopo aver bevuto un campari…mentre aspetto Nello Ambra, per recarci all’ITC per un seminario di Educazione alla Legalità degli studenti

 

E poi in capo alla seconda e ultima strofe:

 

A casa s.l.a. 12.7.2010 ore 1,30.

 

  Questi precisi richiami al tempo e al luogo attestano come la poesia di Pecoraro non è mai gratuita né programmata, facendo sì che la parola spesa, necessitata da un’urgenza del sentire, non risulta spreco narcisistico e autereferenziale; e l’io poetante ne è consapevole al punto da dedicare una poesia all’ “importanza della data”, scritta

 

Rivolgendomi a Santina, alle ore 17,32 del 23/03/80 casa mia, mia stanza

 

L’importanza…della data.

La data è importante perché è lo strumento per intaccare il tempo.

Immagina il tempo, figurativamente, come una lunghissima sbarra di ferro senza inizio che lo strumento data intacca e percorre.

Quando succedono avvenimenti importanti, che scuotono il mondo, la data intacca la sbarra/tempo in maniera più tangibile (ciò assommato forma il concetto di “storia”)

E vi sarà il giorno in cui un avvenimento (potrebbe essere la guerra atomica) sarà talmente forte e violento che spezzerà la sbarra…quel giorno sarà la fine del tempo e, la data, si perderà nell’infinito.

 

   Il momento poetico, dunque, merita la “data” perché “intacca la sbarra/tempo” come un atomo di storia, è un’occasione nel senso in cui lo intendeva Goethe asserendo che ogni poesia lirica è poesia d’occasione (apertamente goethiano è il titolo della seconda raccolta di Montale).

    Lo stesso modo di procedere del testo, nella poesia di Pecoraro, proprio perché assolutamente spontaneo e occasionale, è imprevisto e imprevedibile come l’assecondare un flusso di coscienza che non sai dove ti condurrà, quali immagini incontrerà nel suo percorso, 

un procedere che somiglia tanto allo svolgersi di un sogno, dove il soggetto pur essendone il creatore non sa quello che avverrà nel corso dell’avvenimento onirico. In Pecoraro la poesia è anche rappresentazione palpabile del suo nascere e formarsi, i sentimenti, le emozioni sperimentano una libertà totale, fuori dai lacci della mente ordinatrice. Non siamo alle parole in libertà dei futuristi, né alla scrittura automatica dei surrealisti, ma si direbbe che il poeta faccia un uso discreto dei dettati estetici delle avanguardie novecentesche, senza tuttavia diventarne servo etichettato, accettando solo quello che, secondo la sua ispirazione, c’è di buono da salvare e da usare.

   Questa assoluta libertà di forma si coniuga con una convinta adesione non solo alla realtà immediata e soggettiva del vissuto, ma anche a una responsabile e partecipata consapevolezza della storia. Pecoraro è sì uomo di lettere, ma è anche e soprattutto uomo di lotta; impegnato nelle battaglie per un mondo più libero e più giusto sin dalla prima giovinezza, per lui la storia non è l’incubo dal quale cercare di svegliarsi, come dice il protagonista del capolavoro joyciano, ma è spazio d’incontro sotto una bandiera, al cospetto di un orizzonte condiviso e all’insegna di un’utopia che dà linfa vitale alla fatica e al sacrificio. E sono figure, quelle che incarnano e rappresentano il senso della storia, di un’umanità profonda, figure che antepongono la fede nell’uomo a ogni forma di interesse personale, come zi’ Peppi Di Gregorio, “reisanu onestu e quartararu”, ricordato in una poesia che per genuinità di sentimento e felicità creativa si attesta tra gli esiti più alti dell’intera silloge. Zi’ Peppi “Pridicava l’uguaglianza e amava la rima/ e la ‘ggenti lu futtiva e s’arriduciu in ruvina”: in due soli versi Totò ci fa il ritratto completo di un militante comunista e poeta, molto versato nella lotta per la giustizia e nelle rime ma per niente accorto negli affari, al punto da andare in rovina.

    Sulla stessa lunghezza d’onda dell’impegno politico si svolge la lunga poesia (da recitare almeno col marranzano) Caru cumpagnu in cui comincia col chiedersi “Quannu ann’accanciari sti tiempi tristi e scuscienziati/ci su truppu birbanti alaffannati/ CA DI NA MANERA O L’AUTRA ANN’AMMANGIARI”. E da lì passa in rassegna tutti i mali che affliggono la nostra Isola dalla mafia alla disonestà dei politici…Oggi l’esasperazione dell’individualismo, sempre più invadente e corrosivo, ha reso difficile la poesia civile, difficoltà che nasce da un mutato sentire collettivo e dalle insidie della retorica sempre in agguato quando si tratta di celebrare un evento riconducibile alla sfera del sentire comune. Ebbene, sul punto va detto che il sentimento (o se vogliamo la pulsione) dell’impegno sociale in Totò Pecoraro è così radicato e forte da non correre mai il rischio di riuscire retorico nelle sue espressioni poetiche riguardanti temi d’interesse generale.

  Il discorso poetico svolto in questa raccolta che copre decenni di riflessioni lungo un’esistenza vissuta nel crogiolo della speranza di una vita migliore, o quanto meno nella speranza che il passare del tempo lavorasse in direzione di cambiamenti “in meglio”, oggi è un discorso che diventa di scottante attualità  davanti alle squallide macerie di una sinistra che decenni fa era fonte ed alimento di quelle speranze  e che oggi, tralasciando le battaglie per i diritti sociali, giustifica se stessa, in quanto sinistra, facendosi alfiere di quei “diritti” che con orrendo acronimo vengono definiti LGBTQ. Le poesie di Pecoraro, che al momento della loro nascita sarebbero state accolte come espressione dell’anima profonda della sinistra, oggi sono suscettibili nel migliore dei casi di aspre critiche, nel peggiore di ripudio.  Occhi verdi è del novembre 1981, nasce come poesia pacifista:

 

Dove vai occhi verdi?

Fuori! Per fuggire dall’angoscia

Fuori! Dove non ci sono uniformi

e carri armati.

…………….

Spero in una vita migliore

per me, per i miei figli

per le persone che amo

per l’uomo…

…………….

anche se vuole cercare inutilmente

di manipolare/di imbrigliare

di forzare/ di scatenare

di provocare/ di sventrare

di sopraffare/ di UCCIDERE

 

    Scritti 43 anni fa, questi versi sono di un’attualità disarmante, solo che non c’è più una sinistra, non c’è un partito a farli propri (sono versi “pacifinti”), mentre impotenti assistiamo a manipolazione dei cervelli, a imbrigliamento della libertà di parola, a scatenamento bellicistico, a città sventrate dalle bombe, a sopraffazioni e uccisione di intere comunità. Oggi il poeta è solo. La piazza lo abbandona, distratta da miti ludici creati dalla moderna tecnologia appositamente per ingombrare cervelli già azzerati da un nichilismo che da filosofico è diventato pratico, un nichilismo che dalla fase teorica è passato alla fase esecutiva devastando intelligenze, che si apprestano a scemare ancor di più atomizzate ed emarginate dal sopraggiungere dell’IA.

    I testi che compongono la raccolta sono enucleabili in due specifici territori, politico ed esistenziale. Entrando nel merito del secondo territorio è bene iniziare rilevando che Pecoraro ha tradotto in siculo-nisseno O guardator de rebanhos (Il guardiano di greggi) di Alberto Caeiro, eteronimo di Fernando Pessoa, col titolo U picuraru. Conoscendo i giochi che Totò ama fare con il proprio cognome, verrebbe da pensare che anche questa traduzione non sia altro che l’ennesimo scherzo della sua fantasia. E in tal caso l’“insinuazione” non sarebbe poi così peregrina, considerando quanto il poeta di Lisbona sia lontano dalla politica e in particolar modo dalla sinistra. Ma non è affatto così. Perché c’è una parola ossessivamente ricorrente nei suoi componimenti, sia in lingua che in dialetto, ed è “inquietudine”, che in siciliano diventa “malustari”. Si capisce allora che tra lui e Pessoa non corre solo un legame chiamiamolo di “parentela nominale”, ma una ben più profonda affinità che ci fa pensare allo straordinario Libro dell’inquietudine del poeta portoghese. Ma l’inquietudine di Salvatore Pecoraro, avvocato in Caltanissetta, non è quella di Ferdinando Pessoa, contabile in Lisbona. L’inquietudine di quest’ultimo è fatta dalle fantasmagorie di un pensiero che crea e distrugge se stesso senza sosta, mentre quello del nostro è meno cerebrale, anzi non ha nulla di cerebrale, è una specie di epifania del nulla della coscienza, una tregua assoluta e insopportabile tra l’io e il mondo, un frammento di tempo in cui lo spazio gettato tra i due rimane assolutamente vuoto, l’angoscia, l’ansia, il desiderio, la gioia, il piacere, l’odio, il disgusto, l’amore, il disprezzo…tutto, tutto  è scomparso lasciando un vuoto che farebbe orrore se lo stesso orrore non fosse ancora rapporto con qualcosa. Inquietudine, una poesia del 1991:

 

Nella quiete profonda solo il frigorifero

Accompagna la mia inquietudine.

Non dormo e la colpa non è di nessuno.

Niente mi ha costretto e

Nessuno mi ha impedito di prender sonno.

Nuova primavera ennesimo equinozio…

Questa notte sembra non avere fine.

Il solito cane della mia insonnia guaisce incomprensibili

Segnali intervallati da silenzi misteriosi…

Che fare?

Non piangere, perché le lacrime sono preziose e servono

Ad alleggerire il cuore da futuri dolori.

Non ridere

Perché non c’è nulla che aizzi le labbra al riso.

Sorridere, questo sì, e naturalmente, scrivere.

Me ne sto davanti alla grande finestra e conto le luci

Fuori guardando le stelle

E la nube che accarezza la città.

Mi rendo conto di respirare forte, sorrido e

Mi convinco ancor di più che prendo boccate di quiete.

Notte. Muto accordo degli uomini.

È lunga questa notte.

 

   La parte esistenziale della silloge raramente risulta esente da questo sentimento che il poeta chiama “inquietudine”, forse l’auspicio (se auspici abbia potuto fare) era quello di vedere questo territorio esistenziale (allora si chiamava privato) fagocitato lungo gli anni dal politico, ma la storia ha deciso altrimenti, apparecchiandoci il triste tempo del presente che viviamo. 

 

 
 
 
  
 
 
 
RISVOLTO DI COPERTINA


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