Svolgo una mia riflessione su uno scritto di Gramsci, nelle note redatte in carcere del 1930, in cui in radicale differenza di quanto scriveva nel suo saggio sulla Questione meridionale, pubblicato nel 1926 poco prima di essere arrestato, sosteneva l’opportunità di scegliere la guerra di posizione nella fase in cui il Partito operava. E lo faccio partendo da un’osservazione che condivido di Emilio Quadrelli esposta nel suo saggio su Lukacs, di recente pubblicato a cura di Sandro Moiso.
Scrive Quadrelli che Gramsci nelle Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, sostiene che, nella fase in cui si operava, occorreva scegliere la linea della guerra di posizione. Di cui Palmiro Togliatti parla nel libro, La guerra di posizione in Italia. Epistolario 1944–1964, pubblicato da Einaudi.
Scrive sempre Quadrelli che in «Gramsci, il quale, come noto, era stato posto ai margini dell’Internazionale comunista e dentro lo stesso partito comunista italiano e viveva in una condizione di sostanziale isolamento politico, si fece strada l’idea (1) che nei paesi a capitalismo avanzato la guerra di movimento, ossia la lotta rivoluzionaria violenta e insurrezionale, non potesse darsi e che, pertanto, il partito si dovesse (tatticamente) attrezzare per una lunga guerra di posizione al fine di conseguire una egemonia culturale dentro la società civile»; sì da poter poi abbattere e distruggere con successo lo stato borghese. «Di qui – aggiunge Quadrelli - la teorizzazione dell’edificazione delle casematte della cultura che sarebbero diventate il cuneo attraverso il quale fare breccia nella società borghese. Un’ipotesi che Togliatti fece interamente sua dopo il suo ritorno in Italia nel 1944. Con ciò il movimento comunista rinunciava, per decreto, a qualunque possibilità rivoluzionaria imbracciando la mesta e fallimentare via del parlamentarismo. La deriva prima opportunista e poi apertamente collaborazionista e controrivoluzionaria che il PCI mostrò apertamente nell’era Berlinguer non è altro che il naturale approdo dell’assunzione della guerra di posizione come ‘progetto strategico’ (e non solamente tattico) del movimento proletario». «Una scelta che non ebbe sullo sfondo alcuna furberia tattica (da parte di Togliatti) ma la reale e, occorre riconoscerlo, onesta rinuncia, in piena tradizione socialdemocratica, alla rivoluzione comunista. Un abbaglio e un malinteso, quello della furberia tattica, coltivato da molti sia nell’ambito ... proletario».
Osservavo che Gramsci, nel pieno della sua maturità politica (aveva 37 anni), scrisse nell’agosto 1926, poco prima di essere arrestato, il ‘saggio sulla questione meridionale’, che pochi compagni mi risulta abbiano letto – (il migliore scritto che io conosca sull’essenza del fascismo) -, saggio in cui sviluppava la teoria della rottura rivoluzionaria dello Stato borghese. Occorre – scriveva in detto saggio - ‘spezzare l’apparato oppressivo dello Stato capitalistico’ … “instaurando la dittatura del proletariato”. E nel periodo dei ‘Consigli’ e dell’Ordine Nuovo’ – (avendo molto chiara la teoria sviluppata da Marx sullo Stato rappresentativo borghese e quindi della separazione fra società politica e società civile, che non può superarsi, risolversi senza travolgere i rapporti di produzione capitalistici che, come Marx ripete anche nella ‘Critica del programma di Gotha’, sono il reale fondamento della suddetta separazione) -, dirà, come ricorda Liguori in un suo scritto del settembre 2017, che occorre superare, ‘ricomporre la scissione tra società civile e società politica, propria dello Stato borghese, ponendo gli organi di potere creati nel processo rivoluzionario come strutture - cellule di base - dello Stato proletario e socialista’.
La svolta revisionista di Engels del 1895, di cui parlo nelle note critiche svolte in merito al libro di Ferrero e Morandi su Marx, svolta che è da ritenere Gramsci conoscesse anche prima del 1926, lo condiziona negativamente in piena dittatura fascista, dopo il fallimento dell’azione rivoluzionaria in Italia ed in Europa e durante la dura e penosa restrizione carceraria, dove soffrì in particolare, come sai, per l’isolamento operato nei suoi confronti dai compagni di Partito.
Scriveva infatti nel 1930, nel Quaderno VII, la famosa succitata nota intitolata ‘Guerra di movimento e guerra di posizione’ su cui tanto hanno chiosato i togliattiani senza tener conto del succitato contesto in cui venne stesa. E senza minimamente considerare, aggiungo oggi alla luce del saggio di Quadrelli cui ho sora accennato, il significato di scelta tattica necessitata da egli attribuitagli. E soprattutto senza riflettere che Marx, Luxemburg e Lenin si posero seriamente ed a fondo il problema della conquista del consenso e quindi dell’egemonia ed i primi due se lo posero nell’ambito di società borghesi progredite come l’Italia degli anni ’20 – ‘30 ed anche di più (Germania e Inghilterra).
Guido Liguori scrive correttamente nel ‘Dizionario Gramsciano’ (p. 280), da egli curato assieme a Voza, che la succitata svolta riformista di Engels (2) ‘è lo sfondo, in parte la fonte di ispirazione, alla riflessione gramsciana - avvenuta nel suddetto triste e negativo periodo - sul cambio di strategia … per ridefinire il concetto di rivoluzione all’altezza della ‘nuova’ realtà sociale e politica …”. Ebbene, quest’ultima asserzione di Liguori, di una «nuova realtà sociale e politica», posta alla base del cambio di strategia in Gramsci, se consideriamo, come prima precisato, che le tesi di Marx e Luxemburg sulla necessità della rottura rivoluzionaria furono svolte con riferimento a società borghesi più avanzate di quella italiana del 1930, appare erronea e, per giunta, solo come ‘petizione di principio’, secondo la definizione che di questa dà Aristotele, cioè senza alcuna dimostrazione, da farsi con gli opportuni e necessari raffronti.
Questa ‘svolta’ di Gramsci del 1930, senza arbitrariamente collocarla nel suo contesto, è stata utilizzata per la costruzione della riformista strategia togliattiana della via parlamentare al socialismo, di cui fu assertore Kautsky già nel congresso di Erfurt del 1891 e che in Italia venne sancita nelle tesi dell’VIII congresso del PCI. Tesi fondate sul presupposto che sulla base di una certa assunzione da parte dello Stato di funzioni dirette ed indirette nella gestione dell’economia - (come avvenne, ad esempio, con la costituzione dell’IMI nel 1931 e dell’IRI nel 1933, per iniziativa di Beneduce, per dare un impulso dopo la crisi del ’29 alla ripresa dell’accumulazione nell’interesse generale capitalistico) -, sia giusto sostenere la strategia dell’evoluzione al socialismo nella democrazia borghese senza soluzione di continuità. Scelta illusoria, come chiaramente spiegò la Luxemburg del 1918 ed il Gramsci del 1926 in La questione meridionale.
Il quale Gramsci nell’articolo dal titolo Ancora delle capacità organiche della classe operaia pubblicato su ‘L’Unità’ del 24 Ottobre del 1926 (quindici giorni prima di essere arrestato), scrivendo con lucidità e piena cognizione in merito all’esperienza dell’occupazione delle fabbriche quale riprova per le masse lavoratrici della possibilità di una rivoluzione, diceva che ciò avveniva «in un paese occidentale, in un paese industrialmente più progredito della Russia, con una classe operaia meglio organizzata, tecnicamente più istruita, industrialmente più omogenea e coesa». Articolo di cui si fa cenno p. 721 del Dizionario gramsciano curato da Liguori e Voza, alla voce ’rivoluzione’, e del quale riproduco in nota altri passi pure molto significativi. (3)
Gramsci parla nel ’26 di rivoluzione in un paese occidentale, più progredito della Russia, con una classe operaia più istruita e dove c’è una società civile robusta e sviluppata, usando le stesse espressioni che si ritrovano, ma con una impostazione capovolta, nel succitato passo scritto in carcere appena quattro anni dopo, nel ’30.
Ebbene, la pubblicistica del vecchio Pci, seguendo l’orientamento di Togliatti, che, va detto, si era formato alla scuola di Stalin, uomo politico della destra affossatrice del comunismo, così come non diede rilievo alla posizione rivoluzionaria assunta da Gramsci sulla questione degli Arditi del Popolo, stese pure, con stile stalinista, un fitto velo sul significativo suo succitato articolo del 24 ottobre 1926.
Musto nel suo libro su Marx sottolinea che egli nella Critica al programma di Gotha rilevò in particolare l’erroneità del concetto in esso esposto da Lassalle di “giusta ripartizione”, dicendo che non era da rivendicare nel programma il “lassalliano reddito del lavoro integrale”, quanto, invece, la trasformazione del modo di produzione capitalistico. E tornò a spiegare che “il sistema del lavoro salariato (proprio del modo di produzione capitalistico) è un sistema di schiavitù e di una schiavitù che diventa sempre più dura nella misura in cui si sviluppano le forze produttive sociali del lavoro, tanto se l’operaio è pagato meglio, quanto se è pagato peggio”. - Musto osserva pure nel suo succitato libro che ‘altro punto controverso riguardò il ruolo dello Stato’; e ricorda che Marx chiarì sul punto, nella sua ‘Critica al programma di Gotha’ che si commetteva l’errore di trattare “lo Stato come un ente indipendente che ha i propri fondamenti spirituali e morali …, invece di trattare la società … come base dello Stato”. L’idea che si potesse costruire “una nuova società con l’aiuto dello Stato, come si costruisce una ferrovia”, era degna – diceva Marx – delle ambiguità teoriche di Lassalle.
Marx – sottolinea sempre Musto – riteneva che il capitalismo potesse essere rovesciato solo attraverso la “trasformazione rivoluzionaria della società”, come affermato nella stessa ‘Critica al programma di Gotha’. In cui svolgendo una giusta e dura critica alla tesi sullo ’Stato libero’, dice che “in quest’ultima forma statale della società borghese (la repubblica democratica) si deve decidere con le armi la lotta di classe”. E lo scrive, torno a sottolineare, quasi al termine del 1800, facendo riferimento a tre società borghesi molto avanzate, Inghilterra, Francia e Germania.
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NOTE
(1) Il 2 maggio 2019, con lettera a inviata a Mordenti, a te, Giovanni, ed anche ad Acerbo, Ferrero e Liguori oltre che al gruppo di discussione, svolgevo delle osservazioni circa il passo di Gramsci cui avevi fatto riferimento, nel quale egli nel 1930 scriveva che: "Lenin aveva compreso occorreva un mutamento dalla guerra manovrata applicata vittoriosamente in Oriente nel 1917 alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente...In quanto in Oriente lo Stato era tutto, la società civile primordiale e gelatinosa; nell'Occidente tra Stato e società civile c'era un giusto rapporto e nel tremoli dello Stato si scorgeva una robusta struttura della società civile ...lo Stato era solo una trincea avanzata dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte …….”).
(2) Svolta che, come più volte ho scritto e ovviamente provato, la Luxemburg criticò duramente in un suo famoso scritto alla fine del 1918
(3) <<Il biennio mostrò una straordinaria «capacità...di iniziativa e di creazione» degli operai, che si sviluppò in ogni direzione: • Nel campo industriale, per la necessità di risolvere quistioni tecniche, di organizzazione e di produzione industriale. Nel campo militare, per rivolgere a strumento di difesa ogni minima possibilità. Nel campo artistico, per la capacità dimostrata nei giorni di domenica di trovare modo di trattenere le masse con rappresentazioni teatrali e di altro genere, in cui tutto era inventato dagli operai: dalla messa in scena alla produzione. Bisogna aver visto dei vecchi operai, che parevano stroncati da decenni e decenni di oppressione e di sfruttamento, raddrizzarsi anche fisicamente nel periodo dell'occupazione, sviluppare attività fantastiche, suggerendo, aiutando, sempre attivi notte e giorno; bisogna aver visto questi e altri spettacoli per convincersi quanto siano illimitate le forze latenti delle masse e come esse si rivelino e si sviluppino impetuosamente, appena la convinzione si radica di essere arbitri ed egemoni dei propri destini>>. - E Gramsci conclude: • <<Come classe, gli operai italiani che occuparono le fabbriche, si dimostrarono all'altezza dei loro compiti e delle loro funzioni. Tutti i problemi che le necessità del movimento posero loro da risolvere furono brillantemente risolti. Non poterono risolvere i problemi dei rifornimenti e delle comunicazioni, perché non furono occupate le ferrovie e la flotta. Non poterono risolvere i problemi finanziari perché non furono occupati gli istituti di credito e le aziende commerciali. Non poterono risolvere i grandi problemi nazionali e internazionali, perché non conquistarono il potere di Stato. Questi problemi avrebbero dovuto essere affrontati dal Partito socialista e dai sindacati, che invece capitolarono vergognosamente, protestando l'immaturità delle masse; in realtà i dirigenti erano immaturi e incapaci, non la classe. Perciò avvenne la rottura di Livorno e si creò un nuovo partito, il Partito comunista>>.
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