LUIGI FICARRA, Mafia e Stato

Riflessioni a proposito dell'articolo di Attilio Bolzoni 
Il ricordo dei giudici Saetta e Livatino. Memoria e sedie vuote,
pubblicato su "Repubblica" del 24 settembre 2018.

L’argomentazione svolta da Bolzoni a spiegazione del comportamento dei cittadini canicattinesi può a mio avviso essere assunto solo come critica della connivenza dello Stato con la mafia, mai come giustificazione del suddetto comportamento. Se, invero, si dovesse seguire il suo ragionamento, si arriverebbe alla conclusione assurda che in Calabria non dovrebbe esserci il fenomeno positivo rappresentato dal comune di Riace; che alcuna lotta aperta contro la mafia dovrebbe, potrebbe dispiegarsi in Sicilia. (E lo stesso ritengo possa dirsi anche per Calabria, Campania, Puglia, Lucania, Milano, Emilia, etc.).
Ricordo che Scarpinato in un interessante saggio, dal titolo <<Un programma per la lotta alla mafia>>, pubblicato nella rivista “Micromega”, n. 1/2003, così scriveva: “Paradossalmente il punto in cui la riflessione per l’elaborazione del programma dovrebbe prendere il suo avvio – il rapporto mafia e politica – è anche quello in cui, a muoversi sul piano di una rigorosa aderenza alla realtà, la riflessione dovrebbe concludersi a causa di un’intima contraddizione sistemica che ha reso sinora il problema irrisolvibile. Tale contraddizione potrebbe formularsi nei seguenti termini: se il fenomeno mafioso è espressione sistemica della “polis”, come può la “polis” estirpare tale fenomeno senza contraddire se stessa?>>. E per chiarire quanto detto, Scarpinato riporta in nota al  suddetto articolo un passo della famosa relazione di Franchetti e Sonnino del 1876 : “Questa facilità alla violenza nella classe che è fondamento di tutte le relazioni sociali in Sicilia, fa sì che non solo essa non possa usare la forza, che sola avrebbe, di distruggere l’autorità materiale e morale della classe facinorosa (cioè della mafia), e d’impedire in generale l’uso della violenza, ma ancora ch’essa sia cagione diretta per cui la pubblica sicurezza persista nelle sue condizioni attuali”. --- “La forza – continuano  Franchetti e Sonnino – che deve dar la prima spinta al mutamento di queste condizioni deve dunque essere assolutamente estranea alla società siciliana, e deve venir da fuori: deve essere il governo”.– “Ma – rilevano ancora Franchetti e Sonnino – il governo appoggiandosi, …. come avremo luogo di dimostrarlo, principalmente su quella classe dominante stessa, si trova in posizione singolare. Da un lato il suo fine più immediato ed importante è di sopprimere la violenza; dall’altro, per i principi che lo informano, si regge sulla classe dominante (in Sicilia); e l’adopera come consigliera e in gran parte come strumento nella legislazione e nella pratica di governo. Di modo che ha in mano dei mezzi che sono in contraddizione col suo fine, e conviene che rinunzi o al suo fine, o all’aiuto, e all’appoggio della classe dominante. Non avendo rinunciato a questo, ha, per necessità, sacrificato quello”. “Dunque – concludono Franchetti e Sonnino – nelle presenti condizioni di fatto e coll’attuale sistema di governo che si appoggia sulla classe dominante (in Sicilia), la cagione prima e il fondamento, non dell’esistenza, ma della persistenza delle condizioni della pubblica sicurezza in Palermo e dintorni, è la parte diretta e indiretta che ha in queste condizioni la classe dominante” (siciliana).
La contraddizione sistemica del rapporto stato – mafia, individuato da Scarpinato e molto tempo prima da Franchetti e Sonnino nella loro lucida inchiesta postula, per essere superato, una rottura rivoluzionaria, e comunque una radicale presa di coscienza collettiva contro la funzione di sostanziale sostegno dello Stato alla mafia, interrotto da saltuarie azioni repressive contro parte del suo apparato militare, ma non di quello politico.
Il comportamento passivo dei cittadini canicattinesi è antitetico a questa scelta, è proprio di chi, con atteggiamento attendista, dice: se non si muove lo Stato io non mi muovo, e come tale va criticato e non giustificato con le argomentazioni svolte da Bolzoni;  -ché, a seguirle, mai ci potrebbe essere un moto di ribellione contro il potere della mafia, stante la connivenza sistemica dello Stato con essa.
Luigi



Il ricordo dei giudici Saetta e Livatino. Memoria e sedie vuote

di Attilio Bolzoni

Così, in forma tanto plateale e irriguardosa, non era mai accaduto. Nemmeno nella Sicilia più ripiegata su se stessa, le terre agrigentine. Nel giorno in cui si ricordavano i giudici Rosario Livatino e Antonino Saetta — tutti e due della provincia di Agrigento e tutti e due uccisi in provincia di Agrigento — l’autorevole ospite chiamato a rievocarne la figura si è ritrovato quasi solo nel teatro comunale di Canicattì. Una diserzione di massa, il trionfo dell’indifferenza. Sul palco il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, in platea una trentina fra ufficiali dei carabinieri, poliziotti, il sindaco, due o tre cittadini, il prefetto. Non c’era un solo magistrato delle procure vicine.
Non c’erano neppure i familiari di Saetta e di Livatino. Una defezione che ha provocato la comprensibile irritazione del procuratore nazionale e segnala in tutta evidenza quella "stanchezza" che — in Sicilia come altrove — si è accumulata in questi ultimi anni davanti alle svariate commemorazioni. Sarà stata pure l’approssimativa preparazione dell’incontro, però il senso che si coglie intorno a questo abbandono ci porta a riflettere su ben altro. E non tanto sulla credibilità di cui gode ancora la mafia nel centro della Sicilia — sempre meno — ma sulla poca credibilità di cui gode lo Stato in quelle stesse zone. Il procuratore nazionale, giustamente adiratissimo, per le sue origini napoletane si è sentito catapultato nella Casal di Principe di una quindicina di anni fa e ha annunciato che «su Canicattì ci sarà un’attenzione particolare del mio ufficio ». Con tutto il rispetto e la stima che abbiamo sempre avuto per Federico Cafiero De Raho, per comprendere cosa abbia mai provocato un’assenza così clamorosa lo invitiamo a guardare per una volta non in direzione della mafia ma dall’altra parte. Lì, nelle zone interne della Sicilia dove ieri l’altro ha trovato nessuno, lo Stato nell’ultimo decennio ha dato cattiva prova di sé. Con certi prefetti al servizio di lestofanti, funzionari del Viminale in combutta con imprenditori spregiudicati, rappresentanti delle Istituzioni nelle mani di un sistema criminale, ministri dell’Interno in vergognosa promiscuità con indagati di 416 bis, ufficiali dell’Arma e pezzi grossi della Dia a mendicare favori, personaggi al di sotto di ogni sospetto santificati da una parte della magistratura e da gran parte della stampa. Un’opera di devastazione, culturale e civile, che ha sotterrato quella fiducia che i siciliani avevano cominciato a coltivare dopo le stragi del 1992, quando lo Stato aveva mostrato il suo volto migliore. Il procuratore nazionale antimafia è stato invitato proprio nel cuore di una Sicilia sfigurata dagli inganni. Ecco perché — secondo noi — quelle 256 poltrone del teatro comunale di Canicattì erano quasi tutte vuote.


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