GIUSEPPE NATIVO, “Zàghiri e Parmi”. La dimensione poetica dello sciclitano Salvo Micciché


Chissà se nel giardino dell’Eden biblico erano presenti “zàghiri e parmi” e “àrvuli putati” (alberi potati) di eterna memoria. Chissà quanto inebriante profumo avvolgeva l’animo in uno sposalizio continuo tra natura e sensi.

Un dimensione, forse, edenica, per quanto sfumata nella lontananza del sogno, quasi inaccessibile, come oggetto di nostalgico desiderio, ma che lo sciclitano Salvo Micciché delicatamente evoca attraverso i suoi versi che aprono “Zàghiri e Parmi” (Biancavela – StreetLib, 2016, pp. 152, anche in e-book nelle librerie on line), silloge poetica contrassegnata da mirabili pennellate intrise di sensibilità e animosa affabulazione dialettale. E’, forse, il giardino di casa, richiamato da fanciulleschi ricordi, a fungere da elemento trainante e viatico per questo ulteriore volume, sequel poetico del suo “Argu lu cani” (2016).
Nei versi di Salvo (cultore di araldica e onomastica, consulente informatico, fotoreporter e direttore editoriale del quotidiano on line Ondaiblea) si notano talora subitanei affioramenti memoriali colorati con angoli di luce, in mezzo al tripudio dell’aria, dei colori, degli alberi in fiore. E’ un palcoscenico in cui la parvenza reale del paesaggio siciliano lievita e fermenta, diventa sede di rinascenze. E’, forse, una dimensione onirica in cui ancora si percepisce una Sicilia antica ricca di agrumeti. Una “Isula” dal profumo energico di zagare i cui effluvi intensi ne rappresentano il manifesto immaginifico sensoriale. Di qui l’immagine dei “lapuzzi” (piccole api) che, nelle reminiscenze dell’autore, mangiucchiano “nne macchiteḍḍi sucannu nèttiri friscu re çiuri cjù beḍḍi” (negli alberelli succhiando nettare fresco dai fiori più belli). Un’immagine sensoria, carica di inesausta vitalità, che dà l’idea del ronzio delle laboriose api domestiche orbitanti “nno jardinu” (nel giardino): un universo straordinario, visto come angolo di paradiso (dal latino paradisus e questo dal greco, ovvero giardino).
Le epifanie dei luoghi di Sicilia, in particolare della sua Scicli, dal sapore familiare dove le brave massaie “re cincu susuti” (alzate dalle cinque del mattino) si apprestano a “scaniari” (impastare) il pane, diventano anche crogiuolo di voci e armonia di suoni che si intrecciano, si accavallano. La voce della terra e il rumore del vento, il cui soffio modella i “çjanchi re macchi i carrua” (fianchi degli alberi di carrubo), sono elementi essenziali della campagna e del duro lavoro che scoraggia i giovani e necessita di: “rasuliari, ’nsitari, putari, tratturiari, scavari u filàgnulu, sprucchiari, spampinari” (scerbare, innestare, potare, arare, scavare il filare, sbocciolare, defogliare). Azioni che, espresse con il verbo coniugato all’infinito, danno l'impressione del movimento, del lavorio frenetico e incessante della campagna. Un mestiere antico, quello del contadino, che rispetta la natura con l’utilizzo dello “zappuni” che “stocca i vurazza ma jìnchia la ucca” (spezza le braccia ma riempie la bocca).
La silloge, impreziosita da un ricco compendio di grammatica della lingua siciliana e da un’articolata bibliografia, è un esempio di come si possa miscelare la cultura di uno spicchio (la Sicilia della zona iblea) di Italia con la naturalezza del raccontare e raccontarsi in versi. Dalla lettura di ogni poesia emerge l’amore profondo di Salvo per la sua terra e la dedica che lui fa di questo libro “ai siciliani onesti” è un po’ la dedica che può sentire per sé ogni suo conterraneo.

Giuseppe Nativo

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