Chissà se nel giardino dell’Eden biblico erano presenti “zàghiri
e parmi” e “àrvuli putati” (alberi potati) di eterna memoria. Chissà quanto
inebriante profumo avvolgeva l’animo in uno sposalizio continuo tra natura e
sensi.
Un dimensione, forse, edenica, per quanto sfumata nella
lontananza del sogno, quasi inaccessibile, come oggetto di nostalgico
desiderio, ma che lo sciclitano Salvo Micciché delicatamente evoca attraverso i
suoi versi che aprono “Zàghiri e Parmi” (Biancavela – StreetLib, 2016, pp. 152,
anche in e-book nelle librerie on line), silloge poetica contrassegnata da mirabili
pennellate intrise di sensibilità e animosa
affabulazione dialettale. E’, forse, il giardino di casa, richiamato da
fanciulleschi ricordi, a fungere da elemento trainante e viatico per questo ulteriore
volume, sequel poetico del suo “Argu lu cani” (2016).
Nei
versi di Salvo (cultore
di araldica e onomastica, consulente informatico, fotoreporter e direttore
editoriale del quotidiano on line Ondaiblea) si
notano talora subitanei affioramenti memoriali colorati con angoli di luce, in
mezzo al tripudio dell’aria, dei colori, degli alberi in fiore. E’ un
palcoscenico in cui la parvenza reale del paesaggio siciliano lievita e
fermenta, diventa sede di rinascenze. E’, forse, una dimensione onirica in cui ancora si
percepisce una Sicilia antica ricca di agrumeti. Una “Isula” dal profumo
energico di zagare i cui effluvi intensi ne rappresentano il manifesto immaginifico
sensoriale. Di qui l’immagine dei “lapuzzi” (piccole api) che, nelle reminiscenze dell’autore,
mangiucchiano “nne
macchiteḍḍi sucannu nèttiri friscu re çiuri cjù beḍḍi” (negli
alberelli succhiando nettare fresco dai fiori più belli). Un’immagine sensoria, carica di inesausta vitalità, che
dà l’idea del ronzio delle laboriose api domestiche orbitanti “nno jardinu” (nel giardino): un universo straordinario, visto come angolo di paradiso (dal
latino paradisus e questo dal greco, ovvero giardino).
Le epifanie dei luoghi di Sicilia, in particolare della
sua Scicli, dal sapore familiare dove le brave massaie “re cincu susuti” (alzate
dalle cinque del mattino) si apprestano a “scaniari” (impastare) il pane, diventano
anche crogiuolo di voci e armonia di suoni che si intrecciano, si accavallano. La
voce della terra e il rumore del vento, il cui soffio modella i “çjanchi re
macchi i carrua” (fianchi degli alberi di carrubo), sono elementi essenziali della campagna e del duro lavoro che scoraggia i
giovani e necessita di: “rasuliari, ’nsitari, putari, tratturiari, scavari u
filàgnulu, sprucchiari, spampinari” (scerbare, innestare, potare, arare,
scavare il filare, sbocciolare, defogliare). Azioni che, espresse con il verbo
coniugato all’infinito, danno l'impressione del
movimento, del lavorio frenetico e incessante della campagna. Un mestiere
antico, quello del contadino, che rispetta la natura con l’utilizzo dello
“zappuni” che “stocca i vurazza ma jìnchia la ucca” (spezza le braccia ma riempie la
bocca).
La silloge, impreziosita da un ricco compendio di
grammatica della lingua siciliana e da un’articolata bibliografia, è un esempio
di come si possa miscelare la cultura di uno spicchio (la Sicilia della zona
iblea) di Italia con la naturalezza del raccontare e raccontarsi in versi. Dalla
lettura di ogni poesia emerge l’amore profondo di Salvo per la sua terra e la
dedica che lui fa di questo libro “ai siciliani onesti” è un po’ la dedica che
può sentire per sé ogni suo conterraneo.
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