Giuseppe Leone
Psicomosaici
Edizioni Cerrito
Canicattì, 2011
Prefazione di Domenico Turco
Giuseppe Leone, poeta di
Canicattì, una cittadina di solide tradizioni poetiche, pubblica, a distanza di
tre decenni dalla prima silloge Quadri
d’inchiostro (1981), Psicomosaici,
una ricca raccolta di ben 125 poesie: 86 in lingua italiana e 39 in dialetto. È quasi un
poema, diviso in due parti: “Su questa terra”, aperta da “Soliloquio di musa”, e “Lu juvu”, introdotta
dalla poesia omonima.
La prefazione ha la firma del
poeta, oltre che fine critico letterario, Domenico Turco, che definisce l’opera
«visioni sfaccettate dell’anima, composta da tante tessere colorate che nel
loro reciproco intrecciarsi danno vita ad un mondo d’incanto, dolore e
bellezza». Il critico Turco considera l’autore «un poeta autentico», il quale
«ha fatto dell’ispirazione la ragione stessa del suo percorso esistenziale», e
ne evidenzia, accanto a «una spiccata originalità», la «complessa interiorità».
Sul piano dei contenuti viene sottolineata la varietà delle tematiche, che
spaziano «dalla splendida natura siciliana, colta in tutta la sua solarità e
selvaggia bellezza, alla spiritualità, da questioni sociali e morali ai drammi
piccoli e grandi dell’esistenza». Dal prefatore viene apprezzato sul piano
formale il rigore tecnico; su quello linguistico l’uso di «stilemi e termini
caratteristici», cioè di «parole che sanno d’antico e di arcano, un vocabolario
decisamente arcaico e arcaicizzante, che tuttavia non impedisce alla vera
poesia di emergere e sovrastare certi manierismi e vezzi terminologici»; e,
infine, su quello delle idee e della poetica «un sincero pessimismo cosmico di
marca leopardiana, che talvolta cede il passo a fugaci momenti di gioia
estatica e sognante, rappresentata visivamente quasi dal lussureggiante
inventario di immagini e metafore usate».
Insomma, con questa positiva quanto
rigorosa presentazione critica, Giuseppe Leone ha ora i titoli per entrare
nella Comune dei poeti canicattinesi.
Per i nostri lettori proponiamo
l’incipit dell’opera, “Soliloquio di musa” in italiano, che il prefatore
considera una invocazione «originale», e “Nièvula a lu ventu” in dialetto, che
chiude la raccolta.
Soliloquio di musa
Vagai per mondi strani
ove rifugio
l’umana genie a me
nota
trovar potesse
dall’ira che ruota.
Non ho trovato che
cani!
Io sola, rimasta nel
regno
ove l’incanto è disegno
che schiude ali remote
e gioie all’uomo
ignote,
cercai le brune fate
dai magici tocchi
creanti
per far risorgere un
vate.
Ma non trovai che
pianti
sulle rovine fumanti!
Cercai il mio figlio
primo:
il Cieco dai celebri
versi;
lo nutrii col soffio
divino:
né tomba né vate
scopersi…
Sì, mi rimisi in
cammino…
Virgilio a Pozzuoli
cercando
io che al suo primo
mattino
dischiusi di musa
l’incanto.
Poi, Dante dal naso
aquilino.
Cercai tra le larve
oscure
i vati figli
che, fiera, fieri
educai
col lauro e candidi
gigli.
Ma, niente: nessuno
trovai!
Nièvula a lu ventu
Vita, mali oscuru
veni ca ti chiàntu
e na bbòna sira
piènnulu a lu muru
o pigliu la mira
sodu, senza scantu.
Muòru e mi nni vàntu!
lu me cori è duru?
Squaglia comu cira!
Nièvula a lu vièntu
sugnu, la me lyra
rùmpu e cchiù nun
cantu!
Nessun commento:
Posta un commento