E’
in uno spazio intermedio tra storia e
letteratura che nasce il testo di Antonio Insalaco. Non si tratta di opera strettamente storica ,
perché non si addentra nelle ragioni che
determinano i fatti, non delinea un quadro più o meno esaustivo di un dato
periodo, non disseppellisce né rilegge documenti per supportare tesi; ma,
d’altra parte, non è neanche letteratura, perché non si concede incursioni
nella fantasia per dipingere un’epoca e raccontare una città.
Tuttavia nelle sue pagine scorrono e si mescolano eventi e sentimenti riconducibili all’una e all’altra. E’ quello che accade alle opere fondate sulla memoria personale quando diventa finestra aperta sul passato collettivo.
Tuttavia nelle sue pagine scorrono e si mescolano eventi e sentimenti riconducibili all’una e all’altra. E’ quello che accade alle opere fondate sulla memoria personale quando diventa finestra aperta sul passato collettivo.
Per circa trent’anni, egli è stato
redattore del quindicinale La Torre,
nonché corrispondente di quotidiani come L’Ora
e L’Unità, esperienze che, attraverso
l’esercizio della scrittura e la familiarità con la carta stampata, gli hanno
forgiato lo stile conciso che ora vive in queste rievocazioni. Le virtù di cronista gli hanno
permesso di regalare alla città di Canicattì un libro, ricavato dal suo
taccuino; e non solo da esso, visto che il faro del ricordo si spinge a ritroso fino agli anni del
fascismo e della seconda guerra mondiale.
Gli va riconosciuto il merito di andare
spesso oltre la mera rievocazione, più o meno sentimentale, più o meno
compiacente, come succede in fatiche letterarie del genere. Insalaco ci riserva
autentiche rivelazioni, racconta retroscena ignoti di fatti noti, onorando la
promessa del titolo “misfatti conosciuti e sconosciuti”. Mi riferisco, per
esempio, all’episodio del campobellese
scarcerato dal San Vito di Agrigento, lo stesso giorno in cui viene
notificato un nuovo mandato di cattura a un detenuto per la strage del 21
dicembre 1947. Sul provvedimento
restrittivo della libertà personale ci sono scritti i nomi di tutti i
catturandi; il suo destinatario glielo consegna con l’incarico di recarsi,
appena uscito, alla sezione comunista di
Canicattì, parlare col segretario e avvisare dell’imminente retata i soggetti
interessati. Così, durante la notte seguente quando gli agenti bussano alle
porte, nessuno di quanti dovevano essere arrestati si trova a casa. In zona
istituzionale si collega l’inatteso fallimento
dell’operazione a una soffiata,
addensando dubbi sul maresciallo della locale stazione dei carabinieri,
che, trasferito ad altra sede, gli tocca subire l’infamante sospetto e
l’ingiusta misura. Dopo sessantaquattro anni, Insalaco svela come si svolsero
effettivamente i fatti, liberando il nome del maresciallo dall’ombra di essere
stato una talpa dentro l’istituzione.
Certo, i sessantaquattro anni occorsi per vincere la resistenza a parlarne
pubblicamente non sono pochi, ma sono il
sintomo rivelatore dello strato di silenzio che
da tutte le parti e sin d’allora si lasciò cadere sulla strage. Rispetto
alla verità giudiziaria l’autore, che all’epoca
era corrispondente di Il siciliano nuovo e L’Unità, ci fornisce un particolare che
gli inquirenti allora ignorarono imprimendo un indirizzo tutt’altro che
imparziale alle indagini: il particolare è che si sparò anche dall’alto, e che, più precisamente, colpi di arma da fuoco
partirono dal balcone della sede delle guardie campestri prospiciente corso
Umberto, luogo dell’eccidio. Con un’indagine aperta a tale dato fattuale (a cui
va aggiunta la mancata perquisizione del Circolo di Compagnia, pur circolando
la voce che vi erano nascoste armi, come ammise il tenente Bongiovanni al
dibattimento avanti l’Assise agrigentina), il processo avrebbe condotto a esiti
diversi. Invece si concluse con una sentenza che allinea la strage di Canicattì
ad altri fatti di violenza politico-mafiosa che scossero la Sicilia di quegli
anni e sui quali solo oggi e solo il lavoro degli storici viene certificando
responsabilità che la magistratura di allora decise di non vedere. Una
ulteriore riprova che la storia non si scrive con le sentenze, destinate a
restare lo specchio di organi preposti a
filtrare i fatti per rafforzare o non
incrinare quell’ordine che i benpensanti a propria garanzia sogliono definire
legalmente costituito. E la storia nostrana (anche recentissima, come dimostra
il processo su via D’Amelio) non manca di esempi eloquenti, dalla strage di
Portella della Ginestra agli assassini
dei sindacalisti. Opera meritevole ha
fatto a Canicattì Salvatore Vaiana puntando sui fatti del 21 dicembre ’47
l’acume dello studioso e la diligenza del ricercatore.
Ma nonostante Insalaco voglia umilmente ascrivere solo al cronista il
racconto della sua città, il libro contiene
pagine in cui prevale il flusso autobiografico e nelle quali gli eventi
sono rivisitati con l’empatia di chi se li porta dentro come parte del proprio
vissuto. Scrivendo del fascismo e della seconda guerra mondiale non attinge dal
taccuino, ma dalla sua memoria, attraverso la quale abbiamo la possibilità di
vedere come, nella primavera del 1940, nelle scuole di Canicattì entrò la
direttiva del regime di “elevare gradualmente la temperatura del popolo
italiano”, che si mostrava refrattario alla guerra avviata da Hitler con
l’attacco alla Polonia. “Ricordo” egli scrive “ la dimostrazione (non sciopero,
perché proibito) obbligatoria con professori che, partendo dalla scuola media
Verga, si snodava per le via di Canicattì. Ci diedero in mano dei tabelloni con
le scritte: Vogliamo Malta!, Vogliamo la Corsica!, Vogliamo la Tunisia!,
Vogliamo Nizza!, Vogliamo Gibilterra!, Vogliamo Suez!.” E in coda alla sfilza
dei Vogliamo gridati da docenti e studenti, Insalaco aggiunge con amarezza: “A
me disgraziatamente capitò Vogliamo la Guerra!. E tutti noi a gridare Vogliamo
la Guerra! Vogliamo la Guerra!.” E quel desiderio inculcato venne esaudito:
anche su Canicattì, nel marzo 1943, cominciarono a piovere bombe
angloamericane, preludio allo sbarco del luglio successivo.
L’arrivo degli americani in Sicilia ha
prodotto tanta memorialistica minuta e
spontanea. Non c’è paese nell’isola che non abbia il suo narratore locale di
quegli eventi. Ma anche scrittori come Nino Savarese e Leonardo Sciascia ci
hanno lasciato pagine indimenticabili sull’impatto della Sicilia con la guerra,
per non dire di altri prodotti letterari più recenti, tra i quali è possibile
trovare anche un radicale revisionismo storico che legge quei fatti da una
presa di posizione nazifascista. Quello di Nino Savarese è forse il testo più
solido e duraturo che sia stato scritto sul dramma collettivo di quelle torride
giornate. Nella sua Cronachetta siciliana
dell’estate 1943 realismo, poesia, riflessione filosofica si fondono
nell’antica cifra umana che si ridesta e ripropone sempre uguale davanti
all’insensatezza della guerra. Sciascia, invece, con La zia d’America ne ha cavato un racconto più lieve, a tratti
brioso, perché tutto è visto con gli occhi di un vivace adolescente di
Regalpetra.
Anche Insalaco ci racconta il periodo
bellico a Canicattì attraverso lo sguardo attento del ragazzino che era allora.
“Il periodo 1940-1943 è stato il più nero per Canicattì” scrive. “ Tutte le
strade erano con lampioni colorati di azzurro ; nessuno poteva lasciare le
finestre illuminate: passava la ronda dei vigili che ad alta voce gridava:
Luce! Luce!, e, se non si chiudeva subito, scattava la multa.” Durante la notte la città doveva stare al
buio “ per evitare di essere individuata dagli aerei nemici.” E quando dalla
torre dell’orologio partiva l’allarme, attraverso quel suono di sirena che in tempo di pace
scandiva la giornata, la gente lasciava le case e correva a rintanarsi nei
ricoveri o nelle grotte delle contrade circostanti. E noi seguiamo questo
ragazzino, oggi autore, per vie sventrate dalle bombe, tra case danneggiate,
scoprendo nomi, assistendo a episodi,
meditando destini individuali scelti dalla storia per il suo realizzarsi.
Se non fosse stato per lui che lo ha scritto chi saprebbe ora che la prima
vittima dei bombardamenti su Canicattì è
stata una quindicenne intenta a curare
un orto di pomodori nei pressi dei Tre Ponti?
Si chiamava Francesca Miceli. A lei la storia ha assegnato un triste primato, e il solo poterla
ricordare basta a giustificare oggi
questo libro.
La rievocazione di quelle tragiche giornate
non poteva ignorare le due stragi che la
città patì per mano sia tedesca e sia americana. La prima avvenne il 12 luglio 1943 in via Capitano Ippolito,
quando un gruppo di persone vedendo transitare in direzione fuori città una
camionetta di tedeschi in fuga, pensando fossero americani in arrivo, si accese
in esclamazioni di giubilo. I soldati della Wehrmacht, capendo il senso dell’esternazione improvvisata,
aprirono il fuoco sul mucchio lasciando
a terra sei morti e facendo diversi feriti. Pare che quella sia stata la prima
strage di civili in Italia compiuta dai tedeschi in ritirata.
L’altra fu quella verificatasi, due giorni
dopo, in un deposito di alimentari di viale Carlo Alberto detto la sapunarìa. Stavolta a sparare sul
mucchio fu un tenente colonnello americano che intendeva fermare l’asporto di
beni di prima necessità da parte di gente affamata per la chiusura da più
giorni di forni e botteghe alimentari.
Lo scrittore Corrado Alvaro racconta di un tale che, rientrato al suo paese dal
fronte della prima guerra mondiale, scende in piazza per comprarsi le
sigarette, ma trovata chiusa la tabaccheria, torna a casa e si suicida. E’ una
vicenda che fa riflettere sugli effetti mentali della guerra, che porta gli
uomini a vedere nella violenza una spicciola pratica risolutrice. La prima
e più disastrosa conseguenza di tale
fenomeno è il calo di valore che subisce la vita umana.
Quando il nostro autore passa a parlare
dell’immediato dopoguerra quello che ci colpisce è il diffuso ricorso alla
violenza che regna tra la gente. Tralasciando i regolamenti di conti in campo
mafioso, determinati dal rientro dei vecchi boss sfrattati dal fascismo e
rifugiatisi in America, a cui il libro non accenna, e considerando a sé la
strage del 21 dicembre del ‘47, Insalaco racconta alcuni episodi significativi
del clima che si respira. Davanti al Circolo Operai, una discussione politica
tra due persone si conclude con un colpo di pistola alla gamba
dell’interlocutore di parte democristiana. L’abito talare non impedisce a padre
Rizzo di spianare la pistola e sparare contro un rosso da cui si sente offeso. Un giovane castrofilippese, sorpreso
dalla guardia di finanza con due stecche di sigarette di contrabbando, mentre
viene condotto in caserma tira fuori il coltello e ferisce l’agente che lo
accompagna, il quale a sua volta gli spara uccidendolo. La guerra aveva
banalizzato la violenza, la fame e la disperazione facevano il resto.
Nel settembre del 1954 esce il primo numero
di un periodico locale che nei 43 anni successivi avrà larga diffusione tra i
canicattinesi. Ne è fondatore e
direttore Giuseppe Alaimo, giovane avvocato di trent’anni. Ha svolto funzioni
di vicepretore, ma preso dalla passione per il giornalismo, assecondata da una
penna scorrevole e felice, decide di dedicarsi esclusivamente a questa attività
dando vita, appunto, al quindicinale La
Torre. Sin dal suo nascere la testata non adotta una linea di fronda, vuole
essere soltanto un giornale civico, e la scelta della torre dell’orologio come
denominazione e come simbolo non deve essere estranea a questa volontà
programmatica. Insalaco è tra i suoi collaboratori, e nel 1959 ne diviene redattore.
L’avere scritto per il giornale di Alaimo ha arricchito il suo taccuino con una
serie di informazioni che ci immettono nella temperie sociale di quel
periodo.
Sono gli anni in cui nascono o si
consolidano i miti (in senso barthesiano) che entreranno a far parte del
bagaglio culturale del canicattinese medio, miti di personaggi come quello del
barone Agostino La Lomia. Forse il suo unico merito rimane quello di essere
stato barone, una parola che ha la
virtù fonetica di riempire la bocca di chi la pronuncia. Per il resto si trattò
di un uomo di ordinarie risorse spirituali, tendenzialmente malinconico e con
periodiche esplosioni maniacali propizie a “bizzarre occupazioni”(parole sue).
Le sue gesta non superano mai l’altezza dei sogni di un magliaro di successo.
Presenziare al festival del cinema di Venezia e farlo sapere ai suoi
concittadini rimasti al paese, posare con Gina Lollobrigida, pubblicare sui
giornali il necrologio del suo gatto…sono cose che hanno permesso a Gaetano
Augello, prolifico scrittore di uomini e fatti canicattinesi, di dedicargli un
volume di 285 pagine. E come se non bastasse, alla monumentale biografia si è
aggiunto un documentario che con metodo plutarchiano ne celebra la vita in
parallelo con quella, nientemeno, del principe Salina, l’altero e disilluso
protagonista del Gattopardo. Ma
nonostante la buona volontà degli autori, libro e documentario non possono dare
al barone lo spessore che non ha mai avuto. Si rivelano espediente kitsch,
costruzione di un mito sullo zoccolo di un uomo patetico e convenzionale.
Un'altra stella che risplende nel
firmamento mitologico del canicattinese è la Secolare Accademia del Parnaso.
Quest’accolita di buontemponi, che avendo tutti i requisiti per poter essere un
parto del genio di Brancati, quale punto di riferimento topografico poteva avere nel paese? Una farmacia. Ed era
quella del farmacista Diego Cigna, un umorista nato, oltre che uomo politico
d’impegno pluridecennale. L’accademia di burloni annoverava brillanti uomini di
spirito come l’avvocato Salvatore Sanmartino, poeti come Domenico Cigna e
Francesco Macaluso, un autentico poeta popolare come Peppipaci…ma anche
poetastri e pataccari, ricordati più per averne fatto parte che per il valore
dei loro versi. Arcadi maggiori, venivano ironicamente definiti questi ultimi.
E tuttavia anche del Parnaso se n’è
fatto un mito. A Canicattì chiunque aspiri all’alloro letterario non trova di
meglio che darsi da fare con un libro sul Parnaso. Il risultato è che in giro ci sono più libri che aneddoti da
raccontare. Non resta che aspettare un testo a sezioni unite, come fa la
cassazione quando vuol far riepilogo di giurisprudenza eterogenea, un testo che
segni finalmente la nascita della parnasologia,
materia di studio a se stante e di carattere strettamente parnasiano.
Scrivendo per La Torre, che alla cronaca nera preferisce quella di costume,
Insalaco diventa testimone dei due
miracoli economici che uno dopo l’altro
fagocitano la vita a Canicattì. Il primo, che data dagli inizi degli
anni sessanta, fu quello del neocapitalismo italiano. Si espresse attraverso la
rivoluzione degli elettrodomestici che dall’oggi al domani vennero a illuminare di modernità le case ancora anguste di
contadini, operai ed emigranti.
Si compravano televisori, frigoriferi,
cucine elettriche: tutto a rate. Nella prima pagina di Cent’anni di solitudine, il colonnello Aureliano Buendìa, davanti
al plotone di esecuzione, ricorda “il remoto pomeriggio in cui suo padre lo
aveva condotto a conoscere il ghiaccio”. E’ un momento d’infantile meraviglia
davanti alla scoperta dell’acqua solida. Un’immagine che personalmente mi riporta all’estate in cui mio padre comprò
il primo frigorifero. L’idea di poter “fabbricare” ghiaccio, in casa e a
volontà, mi riempiva di una felicità alla quale ora non riesco a pensare senza
commuovermi. E non era felicità senza riscontro in tutto quello che
intorno si vedeva e si sentiva. Nonostante l’emigrazione, sulla quale
insistevano i partiti di opposizione additandola piaga sociale dovuta
all’incapacità dei governi borghesi di creare lavoro nel meridione, l’ottimismo
era palpabile nell’aria. Le canzoni in
voga erano dettate da incontenibile gioia di vivere: 24000 baci, Nel blu dipinto
di blu, Abbronzatissima…La musica leggera era seguitissima e i cantanti
godevano d’immensa popolarità.
L’avvocato Alaimo, che attraverso il suo giornale intendeva dare impulso
evolutivo alla città con manifestazioni
che incidessero comportamento e mentalità dei canicattinesi, per alcuni anni
si fece promotore di un festival. Si svolgeva al cinema Odeon con la
partecipazione di cantanti noti, meno noti e qualche volta anche di fama
nazionale. Della Rai-Tivù, si diceva allora di quelli che avevano conquistato
un lembo anche marginale di spazio mediatico. Non solo. Ma ancora prima che la
voce di ragazzina di Rita Pavone irrompesse sulla scena italiana con La partita di pallone - si era nel
’62- La
Torre a Canicattì patrocinava già il concorso di Miss Tifosina, e sin dal
1954. Con esso si voleva rendere partecipe del campionato di calcio anche il
pubblico femminile. Non era cosa da poco. E l’autore ricorda le difficoltà a
cui andava incontro la manifestazione per l’atavica cultura che voleva la donna
segregata in casa tra fatiche domestiche
e lontana dagli svaghi maschili. “Erano altri tempi” osserva il nostro
cronista. “La mentalità familiare era alquanto retriva. Come si poteva
realizzare un concorso di belle ragazze se non c’era il consenso dei genitori?”
La “Fiera delle macchine e degli attrezzi
agricoli” , anch’essa ideata e organizzata dal direttore della Torre, per circa un decennio assecondò e
guidò la modernizzazione delle nostre
campagne. Un periodo cruciale, dal 1957 al 1968, in cui
progressivamente diminuiva l’impiego delle bestie e cresceva quello delle macchine. Il
cambiamento fu lento, ma inarrestabile. Ad asini e muli succedettero trattori e
mietitrebbie. La fiera si dispiegava a maggio, nello spiazzo dell’ex Parco
della Rimembranza ed era momento di informazione tra gli agricoltori del
circondario sulle rapide innovazioni che venivano proponendo le aziende
meccaniche del settore.
Dall’agricoltura venne il secondo miracolo
economico di Canicattì, quello dell’uva Italia. Fu verso la metà degli anni
settanta che esplose la redditività del vigneto a tendone. Il valore della
terra ebbe un’impennata spettacolare. Le ruspe nelle campagne abbattevano
alberi, sventravano colline, livellavano fossi per far posto alla nuova
coltura. Anche il sito archeologico di Vito Soldano subì la violenza dei
cingolati da scasso per vigneto, compromettendo definitivamente la possibilità
di portare alla luce reperti che la terra aveva protetto e conservato per
secoli.
Non potrei chiudere queste note senza un accenno alla Libreria Pirandello, che il nostro cronista aprì nel 1964 in viale Regina Margherita e gestì fino alla chiusura avvenuta nel 2010. “Questa libreria” egli scrive “ha fatto parte della storia di Canicattì”. Toglierei il passato prossimo e userei il presente, caro Insalaco, la tua libreria è parte della storia di Canicattì, come tutte quelle cose che trapassando nella memoria di chi le ha amate entrano in un una specie di eterno presente. In quella libreria, studente di scuola media, acquistai i mei primi libri e presto ne divenni cliente assiduo con l’apertura di un conto che assorbiva tutti i miei risparmi di ragazzo. Pirandello, Hemingway, Verga, Cardarelli, Quasimodo, Pascoli, D’Annunzio, Saba… tantissimi autori li ho letti tramite la Libreria Pirandello, gestita con l’amore e la competenza che i canicattinesi per quarantasei anni hanno avuto modo di apprezzare in Antonio Insalaco.
Non potrei chiudere queste note senza un accenno alla Libreria Pirandello, che il nostro cronista aprì nel 1964 in viale Regina Margherita e gestì fino alla chiusura avvenuta nel 2010. “Questa libreria” egli scrive “ha fatto parte della storia di Canicattì”. Toglierei il passato prossimo e userei il presente, caro Insalaco, la tua libreria è parte della storia di Canicattì, come tutte quelle cose che trapassando nella memoria di chi le ha amate entrano in un una specie di eterno presente. In quella libreria, studente di scuola media, acquistai i mei primi libri e presto ne divenni cliente assiduo con l’apertura di un conto che assorbiva tutti i miei risparmi di ragazzo. Pirandello, Hemingway, Verga, Cardarelli, Quasimodo, Pascoli, D’Annunzio, Saba… tantissimi autori li ho letti tramite la Libreria Pirandello, gestita con l’amore e la competenza che i canicattinesi per quarantasei anni hanno avuto modo di apprezzare in Antonio Insalaco.
Intervento alla presentazione del libro |
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