ANGELO LO VERME, Olio su tela. "Istantanee" in bianco e nero d'un tempo che fu

Il tempo è
un discorso senza
fine sull’eternità









  In questo mese di dicembre, al Teatro Sociale di Canicattì è in corso la mostra pittorica dell’artista canicattinese Diego Alù. Inaugurata lo scorso 3 dicembre col titolo “Memorie… realtà in immagini”, dalla terza settimana del mese proseguirà per un’altra settimana nel Locale Spazio Arte attiguo la Scuola Verga.
Gli oli su tela di Alù esposti appaiono subito delle luminose istantanee, dei sapienti scatti in bianco e nero che immortalano attimi e luoghi d’un tempo ormai remoto, che mai più sarà identico a se stesso. Non ci è dato sapere se l’Artista li rimpianga, ma dall’amore e la cura con cui li ha fissati sulla tela sembrerebbe “un atto d’accusa” nei confronti dell’inesorabilità del tempo. Un tempo impietoso che tutto spazza via relegando, quando ci va bene, i luoghi cari dell’infanzia scomparsi o trasfigurati, negli spazi compressi e sbiaditi della memoria; quando ci va male, nei non luoghi dell’oblio e quindi dell’inesistente. Quell’oblio che nella mitologia classica doveva servire ai defunti per dimenticare la vita terrena, oggi per un eccesso sovrumano di nozioni e di dati spesso superflui sembra servire per resettare la nostra memoria appesantita e poter ricominciare più freschi, ma anche forse più poveri, un nuovo giorno.
  Costretti a bere quotidianamente al nostro fiume Lete, irresponsabili e inconsapevoli selettori di memoria, a causa dello stravolgimento dei valori in atto tendiamo a cancellare le nostre radici e a preservare invece ricordi immediatamente funzionali a una cultura essenzialmente materialista, che purtroppo ci separa dalla nostra interiorità, dai nostri simili e dalla natura rendendoci mutili. Insomma, ci fa perdere l’intima connessione con il Tutto che tutti insieme costituiamo, svalutando tutto (fuorché il denaro). Per sottrarre dunque a questa triste sorte luoghi e istanti significativi del passato in quanto nostre radici, Diego Alù, con realismo e una tecnica pittorica personalissima e molto matura, li fissa su uno spazio che pur essendo bidimensionale meravigliosamente li rievoca. Con le sue tele l’Artista riesce a suscitare nel fortunato fruitore le stesse emozioni d’un presente che fu, ma che grazie a precise e delicatissime pennellate composte da varie gamme di neri, di bianchi e di grigi, riconsegna pressoché intatte all’attuale presente e soprattutto ai posteri.
  Ogni tela, in cui una luce intensa definisce, modella, caratterizza energicamente spazi e oggetti, rappresenta un angolino della vecchia Canicattì. Quest’ultima  riemerge dall’oblio con le sue antiche viuzze arabe quasi mai lastricate, con le case in pietra e calce, con le due principali Piazze, con le sue Chiese ma soprattutto con ciò che maggiormente anima, rende viva e caratterizza una città: i suoi abitanti intenti nelle loro attività quotidiane. Costoro sono “ripresi” quasi “a tradimento” mentre serenamente abitano, vivono o percorrono la loro città in sella allo “sceccu” (asino), o a bordo dei tipici carretti siciliani trainati da un mulo o semplicemente a piedi. In una dimensione più umana, anche se poveri vestiti poveramente, pur affaticati dal duro lavoro e dagli stenti di un’epoca immediatamente prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale, vengono ritratti dall’Artista mentre lavorano, chiacchierano o si riforniscono di acqua “ni l’abbrivatura” (abbeveratoio o fontana) in quello che doveva essere un prezioso silenzio surreale. Semmai gli unici suoni sono il normale vocìo cittadino, qualche raglio d’asino e il rotolio monotono delle grandi ruote ferrate dei carretti. Si capisce subito che le loro preoccupazioni certamente non erano lo smog, lo stress del traffico, della continua fretta e dei clacson assordanti, bensì altri più naturali bisogni: sfamarsi e avere un tetto di canne e “canala” (tegole) sopra la testa.  
  Ogni dipinto esposto è accompagnato da interessanti didascalie che, oltre alle dimensioni della tela, descrivono gli elementi ivi presenti con termini siciliani che sono caduti in disuso proprio perché non esistono più gli oggetti che vanno a significare. Alù quindi, strenuo oppositore di quel tempo che demolisce significato e significante, oltre che a raffigurare gli “oggetti scomparsi” va a recuperare dalla memoria i loro nomi altrettanto scomparsi. Infine inserisce alcuni proverbi, indovinelli, aneddoti e modi di dire siciliani che vanno a delineare la saggia cultura d’un mondo contadino ormai estinto. Ad esempio in “La mamma parrascia di ma nanna” egli “parla” di: “gaddrina pirnicigna”, “robbi stinnuti”, “staccia” (staggio che sosteneva il filo per stendervi i panni), “canala cogli acqua”, ecc.; trascrive il proverbio: “La gaddrina ca camina porta la vozza china”; o l’indovinello: “O su beddri o su brutti, vaju tuccannu lu culu a tutti”. Per decifrare quest’ultimo credo che bisognerà chiedere allo stesso Alù che lo ha recuperato.
  Insomma, la mostra di Diego Alù ha l’indubbio merito di avere “riesumato” dall’oblio per riconsegnarcela intatta, una cultura e un mondo contadino siciliano, e ancor più canicattinese, fatto sicuramente di stenti e di sacrifici enormi, ma molto saggio e tanto intelligente, sviluppato nei secoli forse proprio per superarli dignitosamente. Credo che ogni visitatore sentirà il bisogno di dirgli: Grazie Diego!

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