SALVATORE SULLI, Risorgimento, brevi considerazioni

L’evento celebrativo dei 150 dell’Unità d’Italia, nel magnifico scenario del centro storico di Prizzi, offre lo spunto per alcune brevi considerazioni.
La prima è che poco o nulla si sa del vero o presunto risorgimento a Prizzi nel giugno del 1860: conosciamo pochissimi documenti e qualche testimonianza indiretta, insufficienti però a stabilire un minimo di verità storica.

Coloro che in qualche modo si sono occupati dell’argomento, lo hanno fatto in maniera generica senza una scrupolosa ricerca delle fonti.
Insomma, non essendoci uno studio specifico, le sole notizie che abbiamo appreso sono più il frutto di congetture e supposizioni che di vera e propria indagine storica.
Non è che dopo aver letto, riletto e interpretato quelle poche noterelle che Cesare Abba dedica incidenter tantum al nostro paese nel suo celebre “Da Quarto al Volturno” avremo adeguate risposte se a Prizzi vi sia stato risorgimento, se vi fu resistenza e da parte di chi; o capire il ruolo che esso ebbe, e se lo ebbe, in quella “rivoluzione”. Il ‘60 rappresenta uno spartiacque, non una data qualsiasi; usare una lente di ingrandimento e farsi carico di illuminare un periodo cosi nevralgico della nostra microstoria sarebbe più che auspicabile.
Più in generale dalle discussioni, tra l’altro, è emerso anche il tema del risorgimento tradito, tema molto spinoso e di attualità.
Si è parlato di occasione perduta con l’annessione ai Savoia, i quali non portarono affatto quel progresso e quello sviluppo da tutti fortemente agognato.
Ma ad onore del vero la Sicilia occasioni ne aveva già perdute eccome e altre ne perderà nel corso della recente storia; caricare tutto sulle spalle di Mazzini e di Garibaldi o dei Savoia sembra un po’ esagerato; ma tant’è.
E di esempi se ne potrebbero fare tanti: che dire di quando una ottantina di anni prima, rispetto al fatidico 1860, a governare la Sicilia fu mandato dalla Corte borbonica tale viceré Caracciolo? Un illuminista che veniva da Parigi ed era amico personale degli enciclopedisti? Allora vi fu l’occasione per un radicale mutamento: invece la nazione siciliana, la classe dirigente isolana, vale a dire i Baroni si misero di traverso: rimasero aggrappati alle loro prerogative o per meglio dire ai loro privilegi, che difesero con le unghia e con i denti. D’altronde erano quelli che più contavano, perché possedevano due terzi di quello che c’era da possedere e grosso modo non pagavano le tasse. Di revisione del catasto - come avvenuto altrove - non vollero saperne. Caracciolo voleva costruire all’interno dell’isola strade che permettessero il rapido raggiungimento delle merci sulla costa, ma i baroni non vollero che quelle strade attraversassero i loro immensi possedimenti. Chissà perché.
Di classe media, che altrove aveva fatto o faceva le prime comparse nemmeno a parlarne. Gli avvocati e i giuristi erano a libro paga degli aristocratici per perorare le loro cause feudali. E quando cominciò ad emergere una piccola e media borghesia di proprietari della terra, non ebbero altro cui pensare che emulare la aristocrazia superandola in quanto a parassitismo ed a sfruttamento delle classi deboli.
Gli intellettuali poi furono completamente sordi al richiamo di quello che gli storici accademici hanno chiamano riformismo illuminato.
Il popolo, cioè la grandissima massa di contadini, piccoli artigiani e miserabili di cui la Sicilia di allora era piena, non contava quasi nulla.
Qualcuno poi aveva l’ardire di vantarsi che la Sicilia era la roccaforte della feudalità, mentre persino nella parte continentale del Regno delle Due Sicilie il latifondo - anche se gradualmente - cominciava a scomparire e i baroni non erano più dei domineddio come i loro colleghi siciliani.
In questo braccio di ferro la Corona ebbe la peggio sull’arroganza dei baroni e tutto rimase per grandi linee come prima.
È allora strampalato pensare che alcuni dei mali che ancora oggi ci affliggono cominciarono a incubarsi nella Sicilia di allora?
La colpa del nostro crudele destino è da addebitare sempre e comunque a cause esterne? Si chiamino essi Savoia o Borboni, che certo nell’ultimo periodo del loro regno non brillarono per lungimiranza, anzi si può volgarmente dire che si scavarono la fossa essi stessi con le loro mani. Ma fu sempre colpa loro?
La storia, si sa, è molto complessa, ma sarebbe forse meglio, anziché sprecarsi in inutili polemiche, approfondire anche il peso avuto dai siciliani stessi nel fallire sistematicamente tutte le occasioni e le opportunità di cambiamento che la storia ci ha offerto.
Comunque sembra che un dato ormai rimane acquisito nella coscienza dei più: che l’unità non poteva non essere fatta, pena l’esclusione del nostro popolo dal novero delle moderne nazioni europee con tutto quel che ne consegue; che poi non si è riusciti ancora nell’intento di “fare gli italiani”e che esiste il divario nord-sud con annessa questione meridionale irrisolta è un altrettanto dato di fatto con cui bisogna fare i conti. È stato scritto autorevolmente che risalire alle cause, indagare su questo fallimento deve essere la storia a farlo usando i suoi arnesi e i gli strumenti suoi propri; per cercare di risolvere invece i problemi di oggi bisogna farlo con i mezzi e le opportunità che offre il nuovo secolo che stiamo vivendo, senza rivolgere la mente a 150 anni fa.
Infine, una nota meritoria va posta in risalto nella celebrazione proprio a Prizzi di questo iniziativa voluta da privati cittadini, anche se con l’ausilio di vari enti e associazioni; iniziativa che ha cercato di coinvolgere le istituzioni a tutti i livelli, non sempre riuscendovi, malgrado l’impegno profuso; non giustificata è apparsa l’assenza di buona parte dei consiglieri comunali e degli amministratori; assenti le autorità ecclesiastiche. E però è stata una delle poche manifestazioni con partecipazione di pubblico degli ultimi periodi non a sfondo religioso, che a Prizzi rappresentano ormai la regola. Ma sopratutto il fatto positivo è che dopo anni di silenzio ha riportato a Prizzi la voce e l’aura di una tradizione laica, risorgimentale e azionista che non si è mai del tutto spenta.

Salvatore Sulli

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