Da anni Salvatore Vaiana dedica le sue ricerche di storico attento e puntiglioso al passato della Sicilia attraverso “microstorie” locali, in un lavoro che gli permette di addentrarsi nei particolari di avvenimenti e personaggi, facendo luce su aspetti inediti e spesso rivelatori della realtà isolana.
Nella parte introduttiva di una delle sue opere più significative, Una storia siciliana fra Ottocento e Novecento – Lotte politiche e sociali, brigantaggio e mafia,clero e massoneria a Barrafranca e dintorni, Bonfirraro editore, Palermo, 2000, padre Ennio Pintacuda, rilevando la peculiarità e l’importanza dell’attività storiografica svolta da Salvatore Vaiana, auspicava il recupero della memoria storica siciliana attraverso un criterio di ricerca “disarticolato e particolare”, applicato a una minuziosa ricostruzione di tasselli musivi intesi a ridurre, nel risultato finale, l’approssimazione di cui peccano tante storie a carattere generale della nostra isola. Concordando con tale auspicio, bisogna riconoscere come la variegata e complessa tessitura della identità siciliana, abbia dimostrato, attraverso le opere di eccellenti scrittori, come in Sicilia spesso la realtà risulti più stupefacente e intrigante dell’invenzione letteraria, determinando inevitabili e sempre più frequenti incursioni (da Sciascia a Camilleri all’Attanasio) dello scrittore nella storia e richiedendo allo storico una sensibilità che di solito si appartiene al letterato; e alludiamo a quella sensibilità storica o “immaginazione intuitiva” di cui teorizzava molto acutamente Lucien Febvre, sin dagli anni venti del secolo scorso, come risorsa indispensabile a un’indagine storica che non voglia ar- restarsi al di qua della linea d’ombra dei grandi eventi e dei grandi personaggi. E non c’è dubbio che questo tipo di sensibilità possa essere spesa al meglio nelle microstorie locali, che, appunto perché tali, consentono uno studio ravvicinato di uomini e fatti.
Questa Storia della Camera del Lavoro di Canicattì, edizione a cura della CGIL, Agrigento, 2007, ultima e recente fatica dello storico di Prizzi, nasce sulla scia della sua consolidata direttrice metodologica. Vaiana sottrae all’oblio e alla polvere degli archivi lotte, avvenimenti, protagonisti del movimento democratico a Canicattì, coprendo una lacuna cresciuta negli anni da quanti scrittori canicattinesi si siano occupati del passato della loro città; e la copre con l’intuibile vantaggio che, non essendo nativo del luogo, non nutrendo legami affettivi con la materia trattata, la ‘scientificità’ fattuale non viene inficiata da valutazioni acritiche o liriche in cui solitamente inciampano gli storici locali.
Nonostante il titolo, che resta indicativo di un preciso punto di osservazione e di riferimento, l’opera non si limita alle vicende e alle battaglie della Camera del Lavoro di Canicattì, ma ne travalica i limiti nel tempo e nello spazio d’interesse. La narrazione del Vaiana, infatti, prende le mosse da circa un secolo prima della nascita di quella organizzazione sindacale a Canicattì (1919), e cioè dal 1820, anno in cui esplode il moto carbonaro-massonico che registra l’adesione popolare ed è guidato dai baroni locali che, fiutando i tempi, rivendicano l’indipendenza da Napoli. Soffocata quasi immediatamente la rivolta dal pronto intervento dell’esercito borbonico, la classe dirigente locale, ritornata fedele alla monarchia napoletana, per riaccreditarsi borbonica, non esita a far sparare qualche mese più tardi su quei contadini che l’avevano seguita nel tentativo indipendentista e costituzionalista, e che ora protestavano per l’ennesimo aumento della tassa sul macinato.
Questo episodio ed altri che mettono a nudo la spregiudicatezza di una nobiltà meschina e opportunista, vengono attinti dal Vaiana da un anonimo manoscritto, rinvenuto casualmente alcuni anni orsono e trascritto con pazienza da amanuense da Cesare Gangitano (citato in bibliografia come Cronache di Canicattì dal 1792 al 1852, Napoli, 2003, ma inedito). Nelle pagine “dilavate e graffiate”, è il caso di dire col Manzoni, l’anonimo cronista, precorrendo la scuola delle Annales, annota quanto accade nella comunità circostante, riconoscendo pari dignità di attenzione sia gli eventi politici e collettivi che alla vicende private come omicidi, abigeati, matrimoni, decessi, in una mistura di cronaca spicciola e storia elaborata su un modulo diaristico.
Attraverso lo snodarsi dei fatti nel tempo, Vaiana analizza il trapasso alla modernità dell’operoso centro agricolo, che nel 1892 conta una popolazione di 20.875 abitanti e che annovera la presenza di latifondisti, industriali, banchieri, commercianti, professionisti, associati nel Circolo di Compagnia, di un ceto operaio e artigiano raggruppato nella Società Figli del Lavoro e di una stragrande maggioranza di contadini poveri associati nel Fascio dei Lavoratori. La spinta democratica e socialista costituisce l’attributo politico predominante di una collettività che agli albori del nuovo secolo esprime un Fascio di millequattrocento soci, che vota con larga maggioranza il repubblicano-socialista Napoleone Colajanni e che elegge un’amministrazione comunale di sinistra.
Merito del volume è l’avere per la prima volta portato sulla pagina della storia, in maniera organica e capillare, le lotte delle classi subalterne, le vicende interne della sempre travagliata sinistra a Canicattì e di avere, per consequenziale simmetria, tracciato i connotati del potere economico canicattinese concentrato nelle quattro o cinque famiglie che se lo sono tramandato fino alla riforma agraria e alle lotte contadine del secondo dopoguerra. E ciò il nostro storico fa ripercorrendo, tra l’altro, le colonne di una folta sequenza di testate locali (La Folgore Socialista, La Folla, Il Falcetto, Il Comune Socialista, Falce e Martello, ecc.) pubblicate nel primo ventennio del Novecento, prima che la dittatura soffocasse ogni espressione di democrazia e che documentano la vivacità di una coscienza di classe fortemente diffusa e operante.
Sono gli anni in cui la vita politica della sinistra è animata da figure dello spessore di Domenico Cigna, avvocato principe del foro agrigentino, giurista di fama, poeta di valore, in gioventù parlamentare dell’ala massimalista del socialismo italiano, fondatore nel 1919 della Camera del Lavoro di Canicattì, unitamente al fratello Diego, che ne assume la funzione di segretario, e a Gaetano Rao. Dalle pagine di Vaiana emergono tanti nomi dimenticati o al massimo affidati all’asettica memoria nominale di qualche denominazione viaria di terz’ordine.
La CdL, per la sua presenza concreta e incisiva nella struttura economica, alleggerita dalla ideologia che caratterizza invece l’attività dei partiti, diventa il nucleo principale delle lotte al potere economico, tanto che la mafia, sia nel primo che nel secondo dopoguerra, ne fa il bersaglio privilegiato della sua violenza intimidatrice attraverso l’uccisione di numerosi sindacalisti. Canicattì, città caratterizzata da una virulenta presenza mafiosa, non fa eccezione a tale regola.
Ripresa l’attività democratica, alla fine degli anni quaranta del secolo scorso, attraverso una massiccia occupazione delle terre, guidata dal leggendario Domenico Messina (a cui Salvatore Vaiana ha dedicato una monografia, Il Contadino Dirigente, con un ampio saggio di Giuseppe Carlo Marino, oggi in corso di stampa), la CdL si viene a trovare al centro di una imponente mobilitazione popolare contro il blocco agrario-qualunquista, capeggiato dal demolaburista Giovanni Guarino Amella. La reazione dei latifondisti è preoccupata e violenta, si esprime con attentati alle sedi dei partiti della sinistra. Antonio Mannarà, segretario della sezione comunista e attivamente impegnato nel sindacato, viene fatto segno di due agguati ai quali riesce a scampare. Le elezioni comunali vengono vinte dal blocco del popolo (socialcomunisti) con larghissima maggioranza. Tale periodo di violenze e provocazioni culmina in quella che rimane “la pagina più tragica della storia della Camera del Lavoro e del popolo di Canicattì: la strage del 21 dicembre 1947”, nella quale perdettero la vita tre braccianti e un carabiniere. Dopo sessant’anni, Vaiana solleva il velo di unanime silenzio steso su quei fatti di sangue, a seguito dei quali la sinistra subì un processo con condanne e lacerazioni interne, mentre la reazione poté finalmente vedere realizzato il sogno che era stato sempre nei suoi voti: il controllo politico di una città che per oltre cinquant’anni aveva dato prova di una forte coscienza di sinistra.
Le ragioni del silenzio, squarciato per la prima volta dal libro di cui ci occupiamo, vanno ricercate nei sensi di colpa di una sinistra che nelle condanne giudiziarie vide attribuirsi, senza reagire, la pesante responsabilità del sanguinoso bilancio, e di una destra che, cambiata nel risultato effettivo l’identità politica della città ed essendo rimasta sempre nell’ambiguità la provocazione mafiosa della strage, non aveva in pratica nessun valido motivo per rimestare nelle torbide acque delle responsabilità o delle recriminazioni. Vaiana ricostruisce, per quanto sia possibile a distanza di oltre mezzo secolo, la dinamica dei fatti raccogliendo le poche testimonianze di partecipanti a quella manifestazione viventi ancora oggi, nonché attraverso l’esame della lacunosa sentenza della Corte di Assise di Agrigento, da un lato, e, dall’altro, scorrendo l’arringa difensiva dell’ avv. Lelio Basso (pubblicata nel volume Democrazia sotto accusa, nel quale l’autore raccolse le difese che lo avevano visto impegnato nei processi scaturiti da quella drammatica stagione di lotte contadine che investì tutto il Meridione), difensore avanti la Corte di Assise agrigentina del principale imputato, tra i trentacinque di quel processo, Antonio Mannarà.
Evidenziando l’inquietante presenza di Lucky Luciano a Canicattì, ospite del barone Agostino La Lomia, qualche mese prima della strage e riallacciandosi al piano Truman che sanciva la necessità di arrestare con ogni mezzo l’avanzata socialcomunista in Sicilia, Vaiana, in linea con le recentissime tesi dello storico Giuseppe Casarrubea, ipotizza che “la strage di Canicattì potrebbe essere inquadrata nella terribile strategia dei falsi incidenti sostenuta da una serie di forze: l’Oss, l’esercito, i neofascisti, alcuni ambienti della Chiesa, i mafiosi, i massoni, i monarchici, certi industriali, aristocratici, gabelloti e latifondisti.”
Certamente la questione di questa ennesima “strage dimenticata” rimane aperta; ulteriori elementi, se non risolutivi almeno utili, potrebbero senz’altro essere ricavati da un’attenta rilettura di tutti gli atti giudiziari del processo di Agrigento; le uniche certezze che allo stato rimangono, comunque, inalterate nella oggettività del dato sono il trauma subito dalla collettività e la sua conseguente definitiva espropriazione della identità progressista.
L’ultima parte del volume ripercorre il trentennio della segreteria Saccaro, il contadino sindacalista, proveniente dalle file del Partito Comunista, che ha dedicato con passione autentica l’intera sua esistenza alla difesa dei diritti dei più deboli, in un lungo periodo che ha visto prima l’emigrazione delle forze più vive nelle aree di concentrazione capitalistica del Nord e degli altri paesi dell’Europa Centrale e poi l’esplosione del mercato dell’uva “Italia”, che ha trasformato l’agricoltura in senso intensivo, con consequenziali problemi di sfruttamento e di larga pratica del lavoro nero nelle campagne. La CdL, in tale clima, ha operato nell’ambito di un’accumulazione capitalistica rimasta per anni pressoché incontrastata e di un ambiente culturale gretto e stantio che la contestazione studentesca, negli anni che vanno dal ’69 in avanti, cercò di sollecitare nella direzione di una più vissuta democrazia partecipativa.
Esauritasi la spinta sessantottina, è prevalso nella società canicattinese (come, d’altronde, ormai ovunque) un progressivo appiattimento su pseudovalori individualistici, con l’inarrestabile sgretolarsi di ogni forma di aggregazione politica tradizionale. A tale andazzo, la CdL, guidata dal nuovo segretario Salvatore Treppiedi, ha opposto varie e continue iniziative di apertura alle problematiche pacifiste, ecologiste ed extracomunitarie, sulle quali malinconicamente si conclude il libro di Vaiana.
Nella parte introduttiva di una delle sue opere più significative, Una storia siciliana fra Ottocento e Novecento – Lotte politiche e sociali, brigantaggio e mafia,clero e massoneria a Barrafranca e dintorni, Bonfirraro editore, Palermo, 2000, padre Ennio Pintacuda, rilevando la peculiarità e l’importanza dell’attività storiografica svolta da Salvatore Vaiana, auspicava il recupero della memoria storica siciliana attraverso un criterio di ricerca “disarticolato e particolare”, applicato a una minuziosa ricostruzione di tasselli musivi intesi a ridurre, nel risultato finale, l’approssimazione di cui peccano tante storie a carattere generale della nostra isola. Concordando con tale auspicio, bisogna riconoscere come la variegata e complessa tessitura della identità siciliana, abbia dimostrato, attraverso le opere di eccellenti scrittori, come in Sicilia spesso la realtà risulti più stupefacente e intrigante dell’invenzione letteraria, determinando inevitabili e sempre più frequenti incursioni (da Sciascia a Camilleri all’Attanasio) dello scrittore nella storia e richiedendo allo storico una sensibilità che di solito si appartiene al letterato; e alludiamo a quella sensibilità storica o “immaginazione intuitiva” di cui teorizzava molto acutamente Lucien Febvre, sin dagli anni venti del secolo scorso, come risorsa indispensabile a un’indagine storica che non voglia ar- restarsi al di qua della linea d’ombra dei grandi eventi e dei grandi personaggi. E non c’è dubbio che questo tipo di sensibilità possa essere spesa al meglio nelle microstorie locali, che, appunto perché tali, consentono uno studio ravvicinato di uomini e fatti.
Questa Storia della Camera del Lavoro di Canicattì, edizione a cura della CGIL, Agrigento, 2007, ultima e recente fatica dello storico di Prizzi, nasce sulla scia della sua consolidata direttrice metodologica. Vaiana sottrae all’oblio e alla polvere degli archivi lotte, avvenimenti, protagonisti del movimento democratico a Canicattì, coprendo una lacuna cresciuta negli anni da quanti scrittori canicattinesi si siano occupati del passato della loro città; e la copre con l’intuibile vantaggio che, non essendo nativo del luogo, non nutrendo legami affettivi con la materia trattata, la ‘scientificità’ fattuale non viene inficiata da valutazioni acritiche o liriche in cui solitamente inciampano gli storici locali.
Nonostante il titolo, che resta indicativo di un preciso punto di osservazione e di riferimento, l’opera non si limita alle vicende e alle battaglie della Camera del Lavoro di Canicattì, ma ne travalica i limiti nel tempo e nello spazio d’interesse. La narrazione del Vaiana, infatti, prende le mosse da circa un secolo prima della nascita di quella organizzazione sindacale a Canicattì (1919), e cioè dal 1820, anno in cui esplode il moto carbonaro-massonico che registra l’adesione popolare ed è guidato dai baroni locali che, fiutando i tempi, rivendicano l’indipendenza da Napoli. Soffocata quasi immediatamente la rivolta dal pronto intervento dell’esercito borbonico, la classe dirigente locale, ritornata fedele alla monarchia napoletana, per riaccreditarsi borbonica, non esita a far sparare qualche mese più tardi su quei contadini che l’avevano seguita nel tentativo indipendentista e costituzionalista, e che ora protestavano per l’ennesimo aumento della tassa sul macinato.
Questo episodio ed altri che mettono a nudo la spregiudicatezza di una nobiltà meschina e opportunista, vengono attinti dal Vaiana da un anonimo manoscritto, rinvenuto casualmente alcuni anni orsono e trascritto con pazienza da amanuense da Cesare Gangitano (citato in bibliografia come Cronache di Canicattì dal 1792 al 1852, Napoli, 2003, ma inedito). Nelle pagine “dilavate e graffiate”, è il caso di dire col Manzoni, l’anonimo cronista, precorrendo la scuola delle Annales, annota quanto accade nella comunità circostante, riconoscendo pari dignità di attenzione sia gli eventi politici e collettivi che alla vicende private come omicidi, abigeati, matrimoni, decessi, in una mistura di cronaca spicciola e storia elaborata su un modulo diaristico.
Attraverso lo snodarsi dei fatti nel tempo, Vaiana analizza il trapasso alla modernità dell’operoso centro agricolo, che nel 1892 conta una popolazione di 20.875 abitanti e che annovera la presenza di latifondisti, industriali, banchieri, commercianti, professionisti, associati nel Circolo di Compagnia, di un ceto operaio e artigiano raggruppato nella Società Figli del Lavoro e di una stragrande maggioranza di contadini poveri associati nel Fascio dei Lavoratori. La spinta democratica e socialista costituisce l’attributo politico predominante di una collettività che agli albori del nuovo secolo esprime un Fascio di millequattrocento soci, che vota con larga maggioranza il repubblicano-socialista Napoleone Colajanni e che elegge un’amministrazione comunale di sinistra.
Merito del volume è l’avere per la prima volta portato sulla pagina della storia, in maniera organica e capillare, le lotte delle classi subalterne, le vicende interne della sempre travagliata sinistra a Canicattì e di avere, per consequenziale simmetria, tracciato i connotati del potere economico canicattinese concentrato nelle quattro o cinque famiglie che se lo sono tramandato fino alla riforma agraria e alle lotte contadine del secondo dopoguerra. E ciò il nostro storico fa ripercorrendo, tra l’altro, le colonne di una folta sequenza di testate locali (La Folgore Socialista, La Folla, Il Falcetto, Il Comune Socialista, Falce e Martello, ecc.) pubblicate nel primo ventennio del Novecento, prima che la dittatura soffocasse ogni espressione di democrazia e che documentano la vivacità di una coscienza di classe fortemente diffusa e operante.
Sono gli anni in cui la vita politica della sinistra è animata da figure dello spessore di Domenico Cigna, avvocato principe del foro agrigentino, giurista di fama, poeta di valore, in gioventù parlamentare dell’ala massimalista del socialismo italiano, fondatore nel 1919 della Camera del Lavoro di Canicattì, unitamente al fratello Diego, che ne assume la funzione di segretario, e a Gaetano Rao. Dalle pagine di Vaiana emergono tanti nomi dimenticati o al massimo affidati all’asettica memoria nominale di qualche denominazione viaria di terz’ordine.
La CdL, per la sua presenza concreta e incisiva nella struttura economica, alleggerita dalla ideologia che caratterizza invece l’attività dei partiti, diventa il nucleo principale delle lotte al potere economico, tanto che la mafia, sia nel primo che nel secondo dopoguerra, ne fa il bersaglio privilegiato della sua violenza intimidatrice attraverso l’uccisione di numerosi sindacalisti. Canicattì, città caratterizzata da una virulenta presenza mafiosa, non fa eccezione a tale regola.
Ripresa l’attività democratica, alla fine degli anni quaranta del secolo scorso, attraverso una massiccia occupazione delle terre, guidata dal leggendario Domenico Messina (a cui Salvatore Vaiana ha dedicato una monografia, Il Contadino Dirigente, con un ampio saggio di Giuseppe Carlo Marino, oggi in corso di stampa), la CdL si viene a trovare al centro di una imponente mobilitazione popolare contro il blocco agrario-qualunquista, capeggiato dal demolaburista Giovanni Guarino Amella. La reazione dei latifondisti è preoccupata e violenta, si esprime con attentati alle sedi dei partiti della sinistra. Antonio Mannarà, segretario della sezione comunista e attivamente impegnato nel sindacato, viene fatto segno di due agguati ai quali riesce a scampare. Le elezioni comunali vengono vinte dal blocco del popolo (socialcomunisti) con larghissima maggioranza. Tale periodo di violenze e provocazioni culmina in quella che rimane “la pagina più tragica della storia della Camera del Lavoro e del popolo di Canicattì: la strage del 21 dicembre 1947”, nella quale perdettero la vita tre braccianti e un carabiniere. Dopo sessant’anni, Vaiana solleva il velo di unanime silenzio steso su quei fatti di sangue, a seguito dei quali la sinistra subì un processo con condanne e lacerazioni interne, mentre la reazione poté finalmente vedere realizzato il sogno che era stato sempre nei suoi voti: il controllo politico di una città che per oltre cinquant’anni aveva dato prova di una forte coscienza di sinistra.
Le ragioni del silenzio, squarciato per la prima volta dal libro di cui ci occupiamo, vanno ricercate nei sensi di colpa di una sinistra che nelle condanne giudiziarie vide attribuirsi, senza reagire, la pesante responsabilità del sanguinoso bilancio, e di una destra che, cambiata nel risultato effettivo l’identità politica della città ed essendo rimasta sempre nell’ambiguità la provocazione mafiosa della strage, non aveva in pratica nessun valido motivo per rimestare nelle torbide acque delle responsabilità o delle recriminazioni. Vaiana ricostruisce, per quanto sia possibile a distanza di oltre mezzo secolo, la dinamica dei fatti raccogliendo le poche testimonianze di partecipanti a quella manifestazione viventi ancora oggi, nonché attraverso l’esame della lacunosa sentenza della Corte di Assise di Agrigento, da un lato, e, dall’altro, scorrendo l’arringa difensiva dell’ avv. Lelio Basso (pubblicata nel volume Democrazia sotto accusa, nel quale l’autore raccolse le difese che lo avevano visto impegnato nei processi scaturiti da quella drammatica stagione di lotte contadine che investì tutto il Meridione), difensore avanti la Corte di Assise agrigentina del principale imputato, tra i trentacinque di quel processo, Antonio Mannarà.
Evidenziando l’inquietante presenza di Lucky Luciano a Canicattì, ospite del barone Agostino La Lomia, qualche mese prima della strage e riallacciandosi al piano Truman che sanciva la necessità di arrestare con ogni mezzo l’avanzata socialcomunista in Sicilia, Vaiana, in linea con le recentissime tesi dello storico Giuseppe Casarrubea, ipotizza che “la strage di Canicattì potrebbe essere inquadrata nella terribile strategia dei falsi incidenti sostenuta da una serie di forze: l’Oss, l’esercito, i neofascisti, alcuni ambienti della Chiesa, i mafiosi, i massoni, i monarchici, certi industriali, aristocratici, gabelloti e latifondisti.”
Certamente la questione di questa ennesima “strage dimenticata” rimane aperta; ulteriori elementi, se non risolutivi almeno utili, potrebbero senz’altro essere ricavati da un’attenta rilettura di tutti gli atti giudiziari del processo di Agrigento; le uniche certezze che allo stato rimangono, comunque, inalterate nella oggettività del dato sono il trauma subito dalla collettività e la sua conseguente definitiva espropriazione della identità progressista.
L’ultima parte del volume ripercorre il trentennio della segreteria Saccaro, il contadino sindacalista, proveniente dalle file del Partito Comunista, che ha dedicato con passione autentica l’intera sua esistenza alla difesa dei diritti dei più deboli, in un lungo periodo che ha visto prima l’emigrazione delle forze più vive nelle aree di concentrazione capitalistica del Nord e degli altri paesi dell’Europa Centrale e poi l’esplosione del mercato dell’uva “Italia”, che ha trasformato l’agricoltura in senso intensivo, con consequenziali problemi di sfruttamento e di larga pratica del lavoro nero nelle campagne. La CdL, in tale clima, ha operato nell’ambito di un’accumulazione capitalistica rimasta per anni pressoché incontrastata e di un ambiente culturale gretto e stantio che la contestazione studentesca, negli anni che vanno dal ’69 in avanti, cercò di sollecitare nella direzione di una più vissuta democrazia partecipativa.
Esauritasi la spinta sessantottina, è prevalso nella società canicattinese (come, d’altronde, ormai ovunque) un progressivo appiattimento su pseudovalori individualistici, con l’inarrestabile sgretolarsi di ogni forma di aggregazione politica tradizionale. A tale andazzo, la CdL, guidata dal nuovo segretario Salvatore Treppiedi, ha opposto varie e continue iniziative di apertura alle problematiche pacifiste, ecologiste ed extracomunitarie, sulle quali malinconicamente si conclude il libro di Vaiana.
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