Era un uomo di immensa e poliedrica cultura. Quello che di lui mi colpiva era la ferrea volontà, l’inesauribile curiosità e la profonda sete di conoscenza. Nella sua lapide al cimitero di Prizzi, con una foto, con sfondo un azzurro mare, c’è scritto: Carmelo Fucarino, nato il 23-09-1938, morto il 23-04-2024, grecista e poeta. È raffigurato con un accenno di sorriso beffardo: quello tipico della morte.
Rosa Maria Ponte, la inseparabile moglie e compagna di vita, stravolta da immenso dolore, così a preferito immaginarlo. Erano un tutt’uno!
Era un caldo pomeriggio di ferragosto del 2019. Ci trovavamo, come di consueto, a trascorrere una piacevole giornata, con il professore Carmelo e la moglie, mia cara amica, Rosa Maria, nella mia casetta di campagna in contrada “Iannuzzo” a Prizzi.
Quasi per scherzo, gli chiesi, se fosse stato disponibile a rilasciarmi un’intervista. Nel tempo, ho raccolto diverse testimonianze di altri illustri personaggi prizzesi, ormai purtroppo quasi tutti scomparsi. Avevo in mente di raccoglierle e pubblicarle appena avessi avuto più tempo a disposizione. Intuivo, la fortuna, di aver conversato con piccoli-grandi “geni” e ne rimanevo incantata.
Con mia grande sorpresa, il professore, con il suo solito sorrisino ironico ed estremamente intelligente, tale da intimidire l’interlocutore, che spesso, non si reputa all’altezza, tra il serio e il faceto, mi rispose che ci avrebbe seriamente pensato e che al momento aveva tanti progetti e tanti libri in gestazione.
Qualche giorno dopo, sorprendendomi, mi telefona e mi chiede se avessi ancora voglia di intervistarlo. Iniziò così una intervista, strana e lunga, che durò quasi fino alla sua morte. Io gli inviavo le domande con posta elettronica e lui mi rispondeva con lo stesso mezzo, spesso dopo giorni o mesi. Con WhatsApp, invece, mi inviava, quasi ogni giorno, i suoi numerosi articoli che scriveva per i vari blog o riviste on-line.
Sembrava che ogni risposta fosse meditata e ogni parola soppesata. Alle volte la risposta tardava ad arrivare e allora gli chiedevo se avesse cambiato idea.
Qualche volta la domanda la “suggeriva” lui stesso e le risposte non sempre erano attinenti alle domande. Mi rendevo perfettamente conto che per lui quella “intervista”, nata per gioco, si era trasformata in un “percorso di vita”, quasi un doloroso retrocedere nei ricordi di una vita da scrittore.
Di lui mi colpiva, con l’andare degli anni, la sua intolleranza verso lo scadimento culturale. Non a tutti la cultura è gradita, mi diceva sconcertato! “La sapienza magistrale della storia, è tempo perduto inutilmente?!”
L’intervista
D. - Professore parliamo del suo curriculum culturale a partire da Prizzi.
R. – Mi trovi nell’età adatta per redigere un percorso di vita, rivivere esperienze, progettualità, propositi e delusioni, nella mia età in cui è possibile il rimpianto per imprese eroiche che si sarebbe voluto affrontare e che sono rimaste semplici aspirazioni oniriche. Per le distrazioni alle quali ci svia la vita o per inadeguatezza materiale, per la mitica Y greca in cui si imbatté Eracle, per l’imbocco di bivi sbagliati, per remore dubbiose o tempo sprecato nelle vanità, negli inganni degli atti inutili e di scarso valore. Ancora cosa più grave per la coscienza della loro inutilità e del vuoto di valori.
D. – Lei è un intellettuale poliedrico. I suoi interessi spaziano in diversi campi, poeta, romanziere raffinato, cultore di studi classici, storico attento e scrupoloso. In quale campo pensa di aver dato il meglio di se stesso?
R. – Già provo una sensazione di eccessivo nell’iniziale tua definizione. Anche perché potrebbe confondersi con la onniscienza, che è di Dio e in più povere vesti di Leonardo. O nello spregio del saccente tuttologo. Sì, ho affrontato diversi generi, quelli da te indicati e altri ancora di semplice hobby, come saggista o semplicemente giornalista in campo letterario, artistico, musicale, ma sempre tutti connessi alla mia formazione tecnica di base, il prato delle conoscenze del mondo classico, il latino e il greco. E questa pratica è stata la radice di tutti i miei ricerche e tentativi letterari. Da lì ho formato la mia esperienza realizzata, fra prove di poesia e narrativa, nella infatuazione dei grandi fondatori della letteratura italiana. Da quindicenne ho provato a scrivere una mia “Vita nova”, un mosaico di poesie di amore commentate dalla prosa della vita. Poi vennero scritti dati alla stampa. Quando ancora si usavano i caratteri di piombo, l’orgoglio di vedere il mio nome nella copertina dell’edizione critica delle Supplici di Euripide, in competizione con quelle proposte a Siracusa da Giusto Monaco con il titolo di Le Madri. Quella la follia della mia opera stampata. E poi il viaggio, ancora oggi attuale, dietro un mito classico, Pitagora e il vegetarianismo, davanti a degli arancioni a gambe incrociate su un tappeto in una piazzetta di una stazione di benzina.
D. – Tra le sue opere qual è quella a cui è particolarmente legato?
R. – Se si considera l’emozione di trovarmi su una copertina, certo questi due furono i miei figli prediletti. Sto rielaborando il Pitagora per una ristampa aggiornata. Anche nella Bibbia c’erano il prestigio e i meriti dei primogeniti. Quelle gioie del neofita dei piombi mi riempirono di una gioia pazza. Certo, seguirono altre opere più ponderose e di maggior spessore, in un’attività più continua e senza sosta, ma, credo, ci si fa poi l’abitudine, non si può provare quella pazzia. Non posso negare comunque che l’ultima redazione di una nuova opera, il primo volume fra le mani dà sempre una certa emozione, perché conclusione di un parto doloroso, la nascita di un nuovo figlio, che si manda indifeso fra la gente, il rischio delle presentazioni deserte, ma anche la gioia di avere accompagnato alla vita un’altra creatura che si spera che sia utile e doni qualcosa a qualcuno.
D. – C’è un libro che avrebbe voluto scrivere e che fino ad ora per vari motivi non è riuscito a fare?
R. – Ho diversi abbozzi avviati, nella fase della rielaborazione e della stesura, alcuni quasi conclusi, forse non riuscirò a portarli a termine tutti e mi dispiacerebbe. Tirando le somme, devo confessare, senza ombra di vanagloria, che le mie più impellenti e bramate aspirazioni si sono realizzate. Se poi si vuol alludere al capolavoro che si sarebbe voluto scrivere, devo ammettere che riconosco i miei limiti sui quali ho costruito le mie scelte di contenuti e di scrittura.
D. – L’opera oceanica, Stratigrafia del comune di Prizzi, merita una riflessione particolare per il segno perpetuo che lascia e per l’onore e il prestigio che rappresenta per un piccolo paese, narrato dalla sua geologia al Novecento, in tre volumi per più di duemila pagine. Nello scrivere la sua opera più importante, quali difficoltà ha incontrato?
R. – Soprattutto il lavoro propedeutico, preliminare delle fonti storiche. Mi interessavano quelle documentali e ufficiali, al di fuori di racconti soggettivi o peggio di dicerie popolari. E qui furono gli anni trascorsi all’Archivio di Stato di Palermo tra carpette polverose, a consultare fogli ingialliti, sporcati dai topi e divorati dalle tarme. Il progetto, richiesto dal sindaco Girolamo Cannariato e poi realizzato con l’altro sindaco Luigi Vallone, doveva restituire una storia laica, in un confronto metodologico, ma anche ideologico, di struttura e di temi con le due anteriori sintesi, quella organicamente compiuta di Pietro Campagna e quella in bozza di Andrea Milazzo. Si partì così semplicemente. Sorse in itinere l’esigenza di non tralasciare preda delle tarme documenti importantissimi, di salvare il salvabile in quella complessità della microstoria. Fra qualche anno sarà impossibile, dato l’abbandono degli Archivi. La nostra memoria, il nostro essere oggi, sta andando in frantumi. Fu comunque una sfida, che forse meritava maggiore attenzione. La ponderosità probabilmente scoraggia e sarebbe stata necessaria una sintesi ad usum Delphini. Ma non ne ho avuto il tempo e forse la volontà. La grande gioia di averla portata alla Sala della Cavallerizza della reggia di Torino, agli immigrati della Venaria, seconda Prizzi. E per il secondo volume l’emozione unica della rimpatriata a New York con i nostri eccelsi concittadini.
D. – Lei è molto legato anche a Palermo, città ove risiede. Perché ha scritto il Genio Palermo?
R. – Dopo quell’impresa prizzese volevo riempire la storia della mia città di adozione con un mito che mi ossessionava con la sua arcana simbologia in ogni angolo più impensabile della città, il misterioso vecchio, barbuto e incoronato, dal cui seno si nutriva un possente serpente. E lo richiamai indietro nel tempo e lo rinvenni in tante cronache della città lungo il corso dei secoli. Lui mi condusse alle origini e più vicino al Daimon greco e al Genius latino e a tutte le impensabili metamorfosi e stratificazioni di questo dio, unico il nostro per diversità di presenza e iconografia in tutte le città del Mediterraneo. Mi stupì e avvinse questo dio sui generis, arcano e presente diacronicamente e topograficamente. In questo 2019 è stato il protagonista, sotto la spinta del mio saggio, ed è sfilato accanto a Santa Rosalia nel di lei Festino millenario, definito dal sindaco Orlando dio laico accanto alla Santa protettrice. Ma è niente. Il Consiglio comunale ha deliberato il giorno 12 gennaio Giornata del Genio e ne ha indicato la traccia in un significativo manifesto: “Il Genio di Palermo: memoria, luoghi e volti", un ciclo di eventi culturali, musicali, artistici, sportivi e turistici a cura di Istituzioni Scolastiche, associazioni, artisti e con il coinvolgimento di alcune Circoscrizioni Comunali e della Commissione Consiliare Cultura. La cerimonia si concluderà nell’atrio monumentale del Palazzo con lo spettacolo dei Pupi Siciliani dal titolo “Il Genio di Palermo” a cura della famiglia Argento che ha realizzato il Pupo del Genio). La scelta del giorno è gravida di una precisa simbologia: in quel 12 gennaio del 1848, allo scoppio dei moti, i rivoluzionari ammantarono con il tricolore la statua che si ergeva in mezzo alla fontana della piazza, ora detta della Rivoluzione.
D . – Una vita dedita allo studio, all’approfondimento di ogni aspetto esistenziale e naturale. Il tutto rivissuto attraverso le sue opere. Le elenchiamo, anche se sarà difficile, data la loro mole.
R. – Certamente per l’economia di spazio di una intervista avrei delle difficoltà a riassumere in un arido elenco i miei scritti che si sviluppano in un largo spettro di generi letterari e di argomenti. Ma me lo impedisce anche un’altra mia disposizione interiore, il timore di far torto a qualcuno di loro nel tralasciarlo. Basta per una visione globale la biobibliografia che è online in diversi siti.
D. – Dopo i tanti riconoscimenti, premi e attestati di stima, assieme alla collaborazione a prestigiose riviste, si sente realizzato come intellettuale?
R. – Posso certo sentirmi soddisfatto per i contributi che ho dato alla diffusione della cultura, nella ricerca inappagata, ma non pienamente realizzata, del vero. Se così fosse mi sentirei disarmato di fronte alla vita, che vedo fino alla fine come un unico impulso vitale ad indagare e a fare. Quello che ci può sostenere in qualsiasi età è la volontà di superarci, di non fermarci mai, perché allora sarebbe la fine. È quell’élan vital che ci fa desiderare un tempo infinito.
D. – Quanto è stata da lei vissuta ed amata la civiltà contadina rappresentata nei suoi romanzi? Torni bambino per un attimo tra le campagne assolate di Prizzi rivissute nelle sue rievocazioni narrative. Avrebbe mai immaginato questo suo futuro?
R. – Forse a livello di profezia o anche di sogno non avrei mai potuto lontanamente immaginare la traiettoria che mi ha portato da semplice ragazzino figlio di un contadino di un paesetto al centro dell’isola alle realizzazioni odierne. Eppure è innegabile, forse per tutti, che noi siamo quello che ci hanno formato e dato l’infanzia e la puerizia. Già la giovinezza si inquina e arricchisce con altri contatti e interferenze che sono a noi esterne, anche se pur esse formative. Tuttavia la nostra vita è testimonianza e forma delle nostre radici. Ho girato una buona parte del mondo, ma ovunque ho portato quel fanciullo che sentiva l’ebrezza della prima neve e il fulgore delle estati di obbligo in campagna. Io sono alla mia età ancora quelle mie radici. Anche superando i limiti del locale in un contatto ormai esteso a tutto l’universo, da me conosciuto. Con tenacia e con spirito di sacrificio.
D. – Quindi in una condizione globale diremmo oggi?
R. – Si tratta di una espansione in stati psicologici e contenuti, oggi che la comunicazione è ormai resa nell’attimo del presente, ove il passato è già archiviato, anche se mai più cancellato. Pur in questo essere sempre quello che fummo si percepisce una sensazione di comune umanità che guida a scelte e soluzioni identiche. Più la conoscenza e la cognizione dell’esistere si allarga ad altri popoli, a uomini a noi lontanissimi, più è percepibile questa eredità genetica che ci spinge agli stessi desideri e al medesimo modo di agire.
D. – Una domanda più intima e domestica, come vive la sua quotidianità?
R. – Purtroppo mi è mancata sempre la pianificazione, la sistematicità degli atti e delle occupazioni. Non sopporto la ripetizione dei gesti, la monotonia della ripetizione. Non sono mai riuscito a programmare la mia vita, nell’ossessione di cogliere altre occasioni e opportunità, sempre inseguendo l’attimo, l’hic et nunc. Perciò talvolta mi sono trovato spiazzato e ho perduto, come si suole dire, il treno. Ma non me ne pento. Ho così inventato la vita, la ho resa dinamica e viva, nella sua imprevedibilità di tragitti e realizzazioni.
D. – Professore, una fortuna che abbia perso qualche treno, perché ha potuto osservare molte altre cose che con la velocità sarebbero stati inconciliabili.
R. – Non si tratta soltanto di velocità e di fugacità della realtà immediata che ci scorre innanzi, ma mi riferivo alle occasioni perdute, quelle svolte che avrebbero potuto cambiare interamente il corso della vita. Cosa sarebbe stato se avessi accettato la proposta di un corso universitario invece di optare per l’insegnamento fra i giovani? Eppure questo fu un indirizzo con paletti ben circoscritti, un passo decisivo che regolò i rapporti con gli altri, con una diversa generazione con la quale ci siamo sempre ritrovati in sintonia. Più della dispersione e dell’anonimato di un corso universitario ove l’unico rapporto era allora qualche seminario e poi quella oretta e forse meno dell’esame. Due individui che si sfioravano e rimanevano sconosciuti. La scelta del Liceo non mi ha tolto la possibilità, la necessità della ricerca che mi ha portato attraverso le pubblicazioni scolastiche a scoprire e allargare la conoscenza.
D. – Come si sente in questa nuova società? Si trova a suo agio?
R. – Direi il falso se dicessi che mi soddisfano questi tempi di vuoto intellettuale e di violenza gratuita a tutti i livelli, dai social ai politici. Non si sa più dialogare, ma soltanto aggredire e ferire con le ingiurie. Non ci sono più avversari, ma nemici, non competizioni ed emulazioni, ma guerre combattute con tutte le armi. Morta la dialettica, quel confronto creativo inventato dai Greci, la verità è ora a senso unico, la tragica monocrazia delle Idee. Ed è il pensiero esclusivamente personale, sgombrato il campo da tutte le ideologie, ritenute addirittura dannose. Il libero arbitrio, la volontà monolitica, in libera uscita. Siamo nei tempi del pensiero unico, dei leader spocchiosi e ignoranti che vivono nell’inganno del popolo bue. E nel tragico silenzio della Ragione, vittime della violenza delle passioni. Artefici e sopravvissuti all’ombra atavica della paura dell’Uomo nero della nostra infanzia.
D. – Dunque in questo contesto di degrado che stiamo vivendo, come vede il futuro della cultura e quante colpe ed omissioni hanno gli intellettuali o gli pseudo che si definiscono tali?
R. – La loro assenza dal dibattito, ma anche dall’intervento e dall’azione, è semplicemente criminale. Sembrano lontani anni luce gli anni del cosiddetto “impegno culturale”. Su quegli uomini geniali e attivi e sui loro testi mi sono formato, nello spazio breve dopo la rovinosa caduta del regime ventennale. Erano anni pieni di speranze e di slanci, promesse di democrazia e di libertà, di uguaglianza sociale. E gli intellettuali erano in primo piano, con proposte e spinte da Moravia a Vittorini a Bassani a Berto a Pratolini, a tanti altri che facevano la grande politica, da De Gasperi a Togliatti. E la critica feroce del “Palazzo” da parte di Pier Paolo Pasolini. Erano gli anni della fiducia nell’uomo e nelle sue risorse intellettuali, che esplosero nel cosiddetto “boom” economico. Per chi ha vissuto quella intensa e breve primavera sono infinitamente dolorose l’assenza odierna, la nullità e la miseria di questo culturame senza spina dorsale, adeguatasi al sì e genuflesso davanti ad ogni tirannello spocchioso di turno. Siamo al crollo completo della politica, quella dottrina che indicava la strada del “buon governo”, in delega dai cittadini. E all’uso sacrilego della religione, se un razzista confesso e praticante, di un fautore dell’omicidio in difesa della borsa può ostentare il rosario e dirsi parte di una società di “radici ebraiche e cristiane” con l’augurare morte a nemici e africani e neri.
D. Prof., lei delinea uno scenario apocalittico. Non vede proprio nessuna luce in fondo al tunnel?
R. – L’analisi delle società dalla fine della preistoria e dall’esplosione antropologica, dall’entrata dell’uomo nella storia, cioè da quel momento eccezionale in cui l’uomo cantò le glorie degli uomini, il suo epos, e poi ebbe l’ardire di fissarlo nella vera e unica invenzione di tutti i tempi, la scrittura, mi ha convinto che non c’è nella storia umana una fine, un punto fermo. Non credo nel pessimismo di alcuni espresso dalla formula assoluta della “fine della storia”. Se si dà una scorsa allo sviluppo delle società umane si comprende che non si può mai parlare di decadenza o regresso di una società, semmai si tratta di una “crisi” di trasformazione, di un passaggio da un sistema, anche se dolorosamente e tragicamente, ad un altro, di un momento ciclico, come le maree. A cosa ci porterà è difficile dirlo, ma l’uomo si adatterà, come è avvenuto dall’era in cui aveva la coda e conservò solo il coccige. Certo ancora la guerra dell’uomo contro l’uomo dai tempi esemplari di Caino e Abele, sui quali è difficile fissare le singole colpe. Le torture che si sono adeguate alla scienza, ma anche la grande umanità che ispira tante anime solidali. Ci sarà certamente un futuro “altro”, diverso. Non credo neppure alla catastrofe climatologica. La storia del globo terrestre è passata attraverso ere di glaciazioni e di riscaldamento climatico. L’uomo si è sempre adattato, anche con considerevoli metamorfosi somatiche.
D. – Ritornando al suo percorso intellettuale, possiamo delinearne le tappe?
R. – Furono scelte inconsapevoli dirette da situazioni contingenti. La gracile salute per prima che mi salvò dalla condizione di proprietario terriero e la nuova scuola media con la presenza del latino e i due poemi di Omero e Virgilio. Poi la scelta forzata del Liceo classico. Per ragioni economiche potevo permettermi una scuola di Corleone. E ancora per ragioni economiche la scelta di lettere, anche se con la concessione di quelle classiche. Da lì l’abbrivio con tutte le conseguenze a seguire. Pentimenti? No. Mi sono infatuato di quella cultura e la ho fatto tanto mia da renderla parte inscindibile della mia anima e della mia mente. Il vecchio Paravia mi diceva della grammatica greca che era il mio “monumento”. La cultura greca mi ha reso l’uomo che sono. Umanista?
D. – E l’insegnamento.
R. – Sì, il latino e greco, fatto amare a ragazzi che ho allevato dai sedici ai diciotto anni. Per più tempo di quanto dedicassero loro i genitori. Oggi me li trovo maturi o anziani, con tanto affetto reciproco. Uomini realizzati in molteplici attività e sparsi per tutta Italia e per il mondo. Quei ricordi ci colmano di nostalgia ogni qualvolta stiamo assieme, anche a celebrare anniversari e compleanni. Non è solo quel Gigi Lo Cascio a cui tu pensi. Potrei citare Dacia Maraini e Nado della Chiesa, ma farei torto a tanti altri grandi. Tanti giovani realizzati ed eccelsi nel loro campo dei quali sono orgoglioso, quanto loro lo sono di me. E il glorioso Liceo Garibaldi che ci ha dato lo slancio per competizioni con gli eccelsi, docenti e alunni. Lungo l’elenco e pericoloso per le omissioni.
D. – Città e ancora città è il titolo di una sua raccolta di poesie. Belle, intense, di rara delicatezza ed impegno sociale. Quale sviluppo hanno trovato nella raccolta Percorsi di labirinto?
R. – La poesia non può essere mestiere. Nasce quando si sente e dipinge il nostro percorso sentimentale e culturale. Quei poeti che noi conosciamo solo per i loro versi ebbero attività lavorative varie per vivere. Poi in particolari attimi la richiesta della Poesia di manifestarsi.
D. – Non le pare che questo flusso poetico si realizzi anche nei suoi romanzi?
R. – Pur se inconsapevole. Ci sono momenti elegiaci, empiti di nostalgia che mi travolgono in usi non proprio congeniali con la prosa. Oggi sono categoricamente esecrati, ma anche Boccaccio, l’inventore della prosa narrativa, abusava di cola o sequenze ritmiche. E le sue novelle ci ammaliano ancora, per me più della poesia di Dante.
D. – Quanto ama Prizzi e quanto se ne sente riamato?
R. – Posso dire che non amo Prizzi, ma che sono io Prizzi, perché qui sono stato plasmato, nel bene e nel male, se c’è. L’amore degli altri può nascere dalla conoscenza. Purtroppo io sono stato un emigrato nomade, fortuna perché ho potuto conoscere tante persone con i loro costumi e sentimenti che hanno formato la mia anima.
D. – Lei è molto conosciuto tra la comunità italo-americana di NY, tra l’altro collabora al prezioso quotidiano online “La voce di NY”. Trova che la cultura americana sia molto diversa da quella italiana? In altre parole, non pensa che la nostra cultura sia un po’ provinciale e appiattita a quella americana?
R. – Il mio giudizio può essere personale, perché nasce da sentimenti contrapposti. Per anni nutrii un rifiuto di visitarla. Non amo l’America guerrafondaia per ragioni finanziarie, imperialista da sempre. Né l’America profonda, delle campagne, quella dell’odio razziale. Si propagandò tanto l’eliminazione della segregazione razziale ai tempi di Kennedy. Nella realtà esiste ancora e la frequenza nelle carceri e il loro assassinio da parte di poliziotti lo dimostra. Sono sempre “sporchi negri”, da tener lontani ed utili per i mestieri umili e faticosi. Fu galeotta la Stratigrafia che mi spinse all’abbraccio dei Prizzesi della Big Apple. Ora amo New York e ne ho sempre una struggente nostalgia, perché NY è il mondo. L’ho fatta mia terza città adottiva.
D. – A conclusione. Quale domanda vorrebbe che le fosse posta?
R. – Potrei dire quella che non mi hai fatto. E non saprei proprio quale.
Prizzi, Agosto 2019
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Qui, in contrada Iannuzzo (Prizzi), è partorita l'idea dell'intervista |
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Qui, a casa del professore, è proseguita l'intervista |
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La lapide che ritrae il compianto prof. Carmelo (cimitero di Prizzi) |
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