Un racconto di formazione Càlati juncu ovvero sia fatta la volontà di Dio di Luciano Campagna1 (ilmiolibro.it, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma 2008), narra infatti la crescita e la maturazione del personaggio principale, Giorgio Spedicato. Ma è anche un lungo racconto di mafia e d’ambiente, anzi di formazione in un ambiente mafioso. «È un mondo duro, difficile da capire per chi viene dall’esterno» dice l’autore, ma la sapiente tecnica narrativa che egli adotta rende coinvolgente la lettura a qualsiasi lettore, anche a quello esterno a quest’ambiente.
Le particolari vicende narrate, alcune vere, altre verosimili, altre ancora immaginarie, si svolgono negli anni ’50 e ‘60 del Novecento in «un piccolo paese siciliano» che il lettore interno individua facilmente in Prizzi (PA), dove l’autore è nato.
Giorgio, sotto lo sguardo felice dei genitori, Francesco, un agiato e tranquillo proprietario terriero, e Carmela, vive spensierato con Paolo, il fratello maggiore, fra il paese e la campagna paterna fino al completamento delle scuole elementari.
Poi prosegue con il fratello Paolo gli studi in un collegio di Palermo fino al diploma delle scuole superiori.
Giorgio, attratto dal diritto, inizia gli studi universitari con l’obiettivo di diventare avvocato o giudice.
Egli torna spesso in paese e gli piace rivedere i compagni di gioco della fanciullezza. Tra questi Tano La Bella, un acceso militante del Partito Comunista. Ma Giorgio «di politica non capiva niente» e poi, come gli ricordava suo padre, «doveva pensare a laurearsi». Tano invece è orfano, suo padre era morto «nelle terre del notaio Canzoneri», e non poté studiare, ora quindi deve lavorare duramente per vivere di stenti.
Gli piace anche recarsi in campagna col padre. Ad apprezzare «l’interesse di Giorgio per la campagna» è Pasquale Stabile, un onesto lavoratore al servizio degli Spedicato. Fra i due c’è un rapporto affettuoso: il primo è assai paterno nei confronti dell’altro che a sua volta assume un atteggiamento filiale. Non casualmente l’autore dedica una parte consistente del racconto alla loro relazione che avrà un momento commovente nell’addio alla vita di Pasquale.
Un giorno, mentre lo aiuta a rassettare il vecchio forno di campagna, Giorgio si imbatte in «un lungo legno scheggiato»; era «l’asta della bandiera dell’occupazione» gli dice Pasquale: l’oggetto del caso che gli cambierà la vita. A ulteriori spiegazioni sull’occupazione Pasquale risponde secco: «Sono storie ormai vecchie, dei tempi di Giuseppe Tarantino. Ma poi l’hanno ammazzato e tutto è finito» (sono occupazioni storicamente inquadrabili nel primo dopoguerra, nel caldo biennio rosso contadino siciliano). Giorgio lo incalza: «“E cosa c’entriamo noi con queste occupazioni?”; Pasquale gli risponde: “C’entrate perché queste terre erano state occupate con le bandiere rosse e una delle aste di quelle bandiere era stata utilizzata da tuo nonno come manico per la pala del forno”»; e aggiunge che furono occupate altre terre appartenenti al Notaio e al padre di don Peppino Cusimano. Non ottiene invece risposta la domanda su chi fosse Tarantino.
Iniziano dalla curiosità su quei fatti a lui ignoti e circondati da un alone di mistero le profonde inquietudini interiori di Giorgio - con queste inizia la rottura dell’equilibrio iniziale - così raccontate dal narratore:
«Giorgio ripensava a quell’asta, all’occupazione e a Giuseppe Tarantino. Non era la prima volta che sentiva accennare a fatti di quel genere, ma sempre le parole venivano smorzate e sembrava che nessuno avesse voglia di addentrarsi a rispondere alle sue domande, tanto che finiva che era lui a sentirsi a disagio di fronte alle reticenze delle persone più anziane che avrebbero dovuto sapere tutto quello che lui non sapeva e dirgli qualcosa.»
Quell’inquietudine non è un semplice fastidioso effetto della reticenza che lo circonda, è qualcosa di più profondo: l’avvertimento prima e il rifiuto poi delle ingiustizie sociali che lo porteranno a un’inaspettata scelta di campo. È una «fiammella» che si accende nell’animo di un giovane fino ad allora tranquillo e dedito agli studi il quale si incammina per una strada accidentata.
Dopo l’incontro serale con Giorgio, Tano rientra a casa dove, dopo una breve conversazione iniziale con la madre, si immerge in ricordi e riflessioni sugli anni dell’infanzia:
«Certo era stata una bella serata, ci voleva proprio. Almeno per una sera non aveva pensato a tutto quello che gli faceva rodere il fegato: lo sfruttamento, le prepotenze di don Peppino e degli altri del Circolo dei Civili, e l’atteggiamento benevolo e paterno del notaio che, secondo lui, era il più marcio di tutti, anche con quella faccia da buon padre di famiglia, lui che lo chiamava Tanuzzo e gli raccomandava, per il suo bene, di non mischiarsi con i comunisti.
Sì, una serata di pausa, con Giorgio che di tutto quello non capiva nulla ed era meglio così, visto che apparteneva ad una famiglia di padroni e, una volta entrato in politica, sarebbe diventato uno di loro.
Meglio così, si ripeteva. Non è bello ritrovare le persone a cui si è legati in mezzo ai tuoi nemici.»
Dopo due anni trascorsi a Roma Giorgio ritorna rinnovato in Paese, la grande città «gli aveva aperto gli occhi sul mondo, sul suo mondo, e, conseguentemente, sulla sua infanzia e sulla sua casa». Ormai vede il suo vecchio buio microcosmo con le lenti del nuovo luminoso macrocosmo. E con queste lenti vuol capire quel misterioso universo simbolico, iniziando dal quel manico fino a una vecchia pistola:
«Giorgio la prese in mano e guardò con attenzione quel manico che era servito da asta per la bandiera che aveva segnato l’occupazione momentanea di quelle e di altre terre in quegli anni lontani.
Gli sembrò di vedere quei contadini, quelle facce, quelle mani, simili in tutto alle facce e alle mani che tante volte aveva visto nella sua campagna, per i viottoli o in giro per il paese.
E i suoi nonni? E suo padre? Che parte avevano avuto in quella storia? […]
La sua mente andava lontano, lo portava a ripensare a quel mondo nel quale era cresciuto come un ospite, senza capire o vedere quello che gli accadeva attorno. […]
Aprì lo sportello dell’armadio in camera da letto dei suoi genitori e dal terzo cassetto tirò fuori il vecchio revolver Smith & Wesson calibro 45.
La guardò con cura.
Quella pistola aveva avuto un ruolo nelle storie di quel passato?»
Una sequenza di interrogativi attraversa la mente di «quel giovane idealista», «studioso appassionato, mosso dagli ideali di giustizia sociale e di uguaglianza»; interrogativi senza risposta che assieme al suo impegno intellettuale guastano l’armonia familiare di un tempo.
Giorgio però trova una sua motivazione interiore che lo fa rinascere a nuova vita. Il suo fine ora è combattere quella folclorica filosofia della rassegnazione che da tempo immemore ha tenuto in catene la sua gente, espressa da antichi proverbi e modi di dire: «Càlati juncu ca passa la china», «Non si può raddrizzare le gambe ai cani», «Pane e cipolla e cuore contento», «Sia fatta la volontà di Dio». D’ora in poi egli di volontà seguirà solo la sua. La svolta decisiva avverrà in occasione delle elezioni amministrative.
In quella circostanza nella sezione comunista si discute della linea politica e della composizione della lista dei candidati alle elezioni. Si delineano posizioni diverse. Un compagno chiede se si deve presentare o no un’unica lista con i socialisti, gli risponde il segretario Pasquale Bellino con un secco no perché «i socialisti ormai camminano da soli» e poi perché il loro capo Paolo Fragalà frequenta gli uomini del Circolo dei Civili e per il suo opportunismo «sembrava più padrone dei padroni». Un compagno suggerisce di fare come Fragalà, ma il rivoluzionario Tano lo stronca ricordandogli le terribili condizioni in cui versavano i braccianti e, indicando il quadro raffigurante Tarantino, gli dice: «Lo leggi lì? “Martire dell’idea”: l’idea era che i contadini dovevano vivere meglio, da uomini, non come bestie. E qualcosa è cambiato». Ma ecco il colpo di scena: il segretario propone, pur con qualche riserva, la candidatura di Giorgio motivandola così: «Non possiamo restare sempre tra noi villani ignoranti. Abbiamo bisogno anche di qualcuno che sa parlare meglio di noi, che conosce le leggi. Con lui in lista possiamo avere molti più voti […] potremo essere più forti e combattere con i nostri avvocati contro gli avvocati dei signori». I rilievi critici alla proposta sono diversi e alla fine si rimanda la decisione definitiva. La riunione si chiude con un pensiero premonitore di Tano: «Poco prima di varcare la soglia si voltò indietro a guardare l’immagine del “Martire dell’idea” ed ebbe un sussulto pensando che Giorgio avrebbe potuto fare la stessa fine: questa è gente che non perdona».
Tano ritorna a casa ma la madre gli mostra la sua preoccupazione, la temuta paura che il figlio possa essere ucciso per la sua sovraesposizione politica. Il figlio cerca invano di tranquillizzarla rispondendole che «i tempi sono cambiati»: un tempo Tarantino «era solo», oggi i lavoratori hanno «un partito» che li difende. Ma le immagini di morte si presentano anche alla sua mente.
Pure gli avversari si preparano per l’imminente scadenza elettorale, in primisl’avvocato Canzoneri che chiede informazioni su Giorgio al Cavaliere il quale lo presenta come «una testa calda» perché «parla di diritti e di sfruttamento» e per di più «ce l’ha con la mafia». Alla domanda su che fare in caso risultasse confermata la candidatura di Giorgio, il Notaio risponde: «Ne parleremo un altro giorno». Ci si avvia verso il momento narrativo di massima tensione.
Giorgio riesce a portare alla vittoria il Partito Comunista, che incoraggia la partecipazione dei cittadini alla vita democratica. Nel fronte opposto la linea prudente del Notaio preoccupa don Peppino che in un’animata conversazione al Circolo dei Civili si esprime in modo brutale e deciso:
«Io fino ad ora sono stato buono e caro, ma adesso dobbiamo parlarci chiaro. Anche il notaio deve ascoltare le nostre ragioni. Prima questa gente mormorava, bestemmiava in silenzio ma lavorava, e tutti stavano al loro posto. Poi è bastato che Giorgio Spedicato si mettesse in lista che hanno preso coraggio e non si limitano più a fare comizi con Tano La Bella, non si limitano a parlare fra loro.»
E rivolgendosi al Cavaliere conclude:
«Io, per amore di pace e per il rispetto che porto al notaio e a tutti voi, ho sempre cercato di controllarmi. Perché se io, don Peppino Cusimano, avessi fatto come la sento, di queste teste calde che abbiamo in paese non ci sarebbero più nemmeno le briciole.»
A fermarne, apparentemente, l’impeto fu l’arrivo del Notaio, accolto con il solito e dovuto rispetto.
Il destino di Giorgio è ormai segnato: gli spareranno davanti la sua abitazione.
L’autore, dopo avere portato a compimento il processo formativo di Giorgio con la sua presa di coscienza politica e sociale, ora con la sua morte ne fa un eroe come Tarantino. È un eroismo sterile però, che non genera una reazione diffusa delle coscienze contro la violenza della mafia agraria. Non c’è reazione neanche durante quel momento altamente emotivo che è il funerale di Giorgio, dice la madre di Tano: «C’era poca gente, tante finestre chiuse. In quella solitudine sembravano più sole le bandiere rosse portate da suo figlio, da Niria, da Mario Rumore: erano tristi e tese le facce dei sindacalisti venuti da Palermo, al comizio poca gente aveva osato farsi vedere.» Perfino i genitori di Giorgio si dissociano dalle scelte del figlio, «dietro la bara non c’era la famiglia, non c’erano i parenti». E «non c’era nemmeno il prete a benedire quel povero ragazzo.»
A portare avanti in prima linea «l’idea» rimaneva solo Tano che sarebbe finito «quasi sicuramente come Giorgio». Ma i suoi compagni lo convincono ad andar via perché i compagni «servono vivi, non morti». Sollecitato anche dalle affettuose paure della madre, emigra malvolentieri con lei a Nord per salvarsi dalla subdola persecuzione mafiosa con un fermo proposito: «avrebbe ricominciato da capo» a lottare; d’altra parte «i padroni sono uguali dappertutto, in Sicilia come a Torino: avrebbe rivisto altri notai, altri don Peppino, ma avrebbe ritrovato altri compagni di lotta con cui condividere arrabbiature e speranze, progetti e delusioni.»
Con la morte di Giorgio e la partenza di Tano però l’equilibrio nella dinamica narrativa non è ancora pienamente raggiunto: sopraggiunge infatti l’uccisione inaspettata del Notaio.
Dell’omicidio se ne discute a caldo ma discretamente nella cartolibreria di Mimì. Questi chiede a chi sarebbe passato il bastone del comando mafioso, lapidaria la risposta di padre Migliotta: «Morto un Papa se ne fa un altro, e se vale per Sua Santità figuriamoci se non vale anche per un capomafia.» E quando Mimì gli domanda chi può aver ucciso il Notaio, il prete risponde: «Generalmente in questi casi quello che piange di più è quello che ci guadagna maggiormente.»
All’imponente funerale «poco discosto dalla bara c’era don Peppino, col suo fisico massiccio, guardava in faccia tutta la gente che era andata al funerale, li guardava uno per uno, e molti di loro, dopo aver fatto le condoglianze ai parenti si recavano a salutare proprio lui, rimanendogli poi tutt’attorno.» È lui il nuovo trionfante papa.
Avviatesi a conclusione dopo la Riforma agraria le epiche lotte per la terra che erano iniziate decenni prima con Tarantino e spentosi poi il generoso sogno di giustizia sociale di Giorgio, nel «paese» si sospende la secolare lotta fra antimafia e mafia per la preponderante forza di quest’ultima: mentre l’antimafia soccombe due volte, con l’uccisione di Giorgio prima e con l’abbandono del paese da parte di Tano dopo, la mafia, sopravvivendo alla morte del boss politico Canzoneri, trionfa con i metodi duri di don Peppino Cusimano. Il paese rimane in mano al capomafia che dall’interno dello «steccato» del Circolo dei Civili domina incontrastato continuando quella storia di potere e affari inevitabilmente accompagnata da sopraffazione e sangue.
Concluso drammaticamente il racconto, l’autore inaspettatamente inserisce in coda a esso una insolita «Postfazione» nella quale il narratore dà voce a un giovane insegnante di Lettere, Andrea, anche lui come Giorgio un «intellettuale». Era arrivato nel «piccolo paese siciliano» sei mesi prima del funerale del Notaio per prendere servizio presso «l’Istituto Magistrale».
Al professore sta subito stretta la «monotona vita» di quel «paese che sembrava popolato da morti»: «Se lui fosse stato un uccello ed avesse avuto la capacità di volare non sarebbe certo venuto a finire lì; avrebbe volato anche per giorni e giorni, ma si sarebbe fermato in un posto che neanche lontanamente avrebbe avuto nulla a che vedere con quel paese appollaiato in cima alle montagne. Ma forse nella filosofia della vita degli uccelli non c’era posto per quel problema di Andrea.» Presto i voli della sua mente si sarebbero materializzati. Sei mesi dopo il suo arrivo una novità rende Andrea «improvvisamente di buon umore e spontaneamente cordiale»: una raccomandata gli annuncia «la notizia tanto attesa», l’opportunità di poter «volare» dall’Istituto Magistrale di quel «paese di gran conforto» dove «o piove o tira vento o suona a morto» in «un posto» di lavoro diametralmente opposto.
Il desiderato addio alle montagne del professore avviene in concomitanza del funerale del Notaio ed è così motivato: «Aveva ragione a dire che quello era un paese incivile: come si poteva vivere in un posto come quello dove la gente si sparava addosso? Ma cosa avevano da dividere, quali interessi potevano essere talmente importanti in un paesino come quello da spingere all’omicidio?»
La strada che Andrea sceglie di percorrere somiglia più a quella di Tano che all’altra di Giorgio: vivere in un luogo diverso per una libera autorealizzazione. Lì Andrea potrebbe instaurare quel «nuovo rapporto con i colleghi» non riuscitogli all’«Istituto Magistrale» e «trasformare e innovare» la scuola, almeno «nel campo della didattica». Ecco perché «si sentiva fortunato ad andarsene via».
A conclusione di questa lettura riteniamo utili due considerazioni sull’autore di un’opera che ha saputo elevare a livello letterario, universalizzandole, pagine oscure di storia locale.
Egli afferma in quarta di copertina che gli «adulti scoprono la dura realtà della mafia con la quale sembra si debba per forza convivere, accettarla o rimanere schiacciati». «Sembra» ma non è così, infatti nel racconto prospetta, come si è visto, una terza alternativa alla convivenza con la mafia rispetto all’accettazione rassegnata della moltitudine o al soccombere di chi come Giorgio combatte coraggiosamente sul campo: emigrare in luoghi lontani e rassicuranti, come fanno Tano e Andrea che però vanno via con animo diverso, con dolore l’uno e con un senso di liberazione l’altro. L’autore, da parte sua, poiché chiude il racconto dando ampio spazio e risalto alla figura di Andrea, sembra prediligere i pensieri e soprattutto la scelta finale di questi.
Si dice che il migrante ha bisogno di un’Itaca a cui tornare, ma ciò non è il caso di Andrea. L’ulisside che invece ritorna con ardire alle radici, seppur con il sortilegio della parola, è l’autore: egli ha voluto far rivivere ricordi dolorosamente veri, seppur accortamente trasfigurati, e un mondo reale di immagini, suoni, odori, sapori. Memorie e sensazioni che gli sono rimaste indelebili nella mente, nel cuore e sulla pelle. Resistite allo scorrere impietoso dei decenni, esse lo accompagneranno ancora ma con la leggerezza della catarsi letteraria.
NOTE:
1 Dopo la laurea in Lettere all’Università di Palermo discutendo una tesi a carattere sociologico proprio su Prizzi e una breve esperienza d’insegnamento all’«Istituto Magistrale» di Prizzi, l’autore si trasferisce definitivamente a Milano, dove ha insegnato Materie Letterarie nel prestigioso Liceo Classico “Parini” di Milano fino al pensionamento. Successivamente a quest’opera prima ha scritto altri quattro romanzi, pubblicati anche questi con ilmiolibro.it: Renata Artale, 2008;L’odore degli eucalipti, 2009; Nessuno può rubarti il tango che hai ballato, 2012.
(Pubblicato su “Le MUSE”, Rivista periodica dell’Associazione Culturale “Le Muse” di Ispica, Anno VI n. 2 – Dicembre 2018)
LA RIVISTA
http://reader.ilmiolibro.kataweb.it/v/57132/clati-juncu_57132
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